“Nella baracca 18, nonostante la paura, l’attesa, l’incertezza, aleggiava qualcosa di simile alla speranza, al futuro. Nella baracca 18, ‘la baracca degli intellettuali’, di sera, alla luce delle candele, si parlava di democrazia, si immaginava possibile una futura Europa unita, contro i nazionalismi e le dittature in atto. Si parlava di ‘vita’”. Giuliano Banfi non nasconde la commozione quando racconta la storia del padre, l’architetto Gian Luigi Banfi, nato a Milano nel 1910, transitato per il campo di smistamento di Fossoli, frazione di Carpi (Modena), dopo San Vittore, e poi morto nel campo di concentramento di Gusen, il 10 aprile 1945. Le parole di un figlio, diventato architetto come il padre, che in tutti questi anni ha preservato e tramandato la storia di “un uomo dai forti ideali democratici, marito e padre affettuoso, amico fedele e professionista colto”. La ricorrenza della Giornata della Memoria, il 27 gennaio, impone una riflessione, un tornare al passato con la consapevolezza dell’oggi. Ecco allora che le testimonianze rese dai discendenti di coloro che hanno vissuto la deportazione, i campi di concentramento da cui non hanno fatto più ritorno, sono materiale prezioso per fare memoria perché da questi avvenimenti si possono trarre validi insegnamenti.
Dentro la baracca. “Mio padre è arrivato a Fossoli con un gruppo di milanesi – prosegue Giuliano Banfi -. Nello smistamento hanno cercato di non disperderli, per garantire una certa omogeneità, e questo ha consentito di intessere tra loro rapporti di solidarietà e condivisione di idee. Papà, insieme all’amico fraterno e collega architetto Lodovico Barbiano di Belgiojoso aveva fondato il Partito di azione ed era in collegamento con il Comitato di Liberazione Nazionale. Nella baracca ‘degli intellettuali’ si erano dati un’organizzazione democratica dal basso quale forma di solidarietà umana. I beni erano stati ‘socializzati’, ossia distribuiti in base alle esigenze delle persone, indipendentemente dall’estrazione sociale e dal titolo di studio. Hanno saputo elaborare un concetto di socialità antesignano della Costituzione del 1948”. C’erano letterati, storici, economisti, architetti: “In quella baracca – spiega Pier Luigi Castagnetti, presidente della Fondazione Fossoli – ci sono tracce di discussioni molto interessanti, di natura costituzionale, relative al ‘dopo nazismo’. Quali caratteri avrebbe dovuto avere una prossima Repubblica e la democrazia in Italia. Certo, il documento dell’unità europea, ‘Il Manifesto di Ventotene’, considerato uno dei testi fondanti dell’Ue, è stato scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel 1941 durante il periodo di confino presso l’isola di Ventotene”.
“Anche a Fossoli si è pensata la futura Europa unita e l’assetto istituzionale democratico italiano”.
A testimoniarlo la visita al campo di concentramento di Fossoli, lo scorso luglio, del presidente dell’Europarlamento, David Sassoli, per la commemorazione dell’eccidio del Cibeno (12 luglio 1944) quando 67 prigionieri politici furono trucidati dai nazisti. Con lui anche Ursula von der Leyen.
Un museo per non dimenticare. Il figlio Giuliano ha raccolto il prezioso carteggio intercorso tra il padre e la madre, poi pubblicato nel libro “Amore e speranza. Corrispondenza tra Julia e Giangio dal campo di Fossoli aprile-luglio 1944”. Ma il nome di Banfi è legato a doppio filo al campo di Fossoli anche per il Museo “Monumento al Deportato politico e razziale” di Carpi. Nel 1932, Banfi e i colleghi Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers hanno fondato lo studio BBPR (dalle iniziali dei quattro), che sarebbe poi diventato punto di riferimento per l’architettura razionalista italiana. Alla fine della guerra, morto Banfi, lo studio ha ripreso l’attività mantenendo inalterata la sigla BBPR, in memoria dell’amico scomparso, “in quanto il loro metodo di lavoro collettivo era così radicato da arrivare a definire quella di mio padre come una ‘assenza-presenza’ permanente che aleggiava sempre quando si realizzavano i progetti”. Nel 1973 lo studio ha inaugurato a Carpi il Museo Monumento al Deportato, struttura unica nel suo genere, frutto dell’impegno civile di artisti che furono anche testimoni degli avvenimenti che rappresentavano.
L’ultima delle tredici sale da cui è composto, la “Sala dei Nomi”, reca incisi sulle pareti e sulle volte i nomi dei circa 15.000 cittadini italiani deportati nei lager,
“per garantire ad ognuna di quelle vittime, compreso mio padre – chiosa Banfi – la memoria, il ricordo. E ai loro cari una sorta di ‘tomba’ presso la quale recarsi per una preghiera, un fiore, un pensiero”.
Dentro al Museo, ci sono anche teche contengono reperti, materiali e fotografie, che documentano la vita dei prigionieri nei campi, raccolti e ordinati da Lica e Albe Steiner. Ancora una volta un doppio filo lega l’opera del Museo Monumento con il campo di Fossoli: Mino Steiner, fratello maggiore di Albe (all’anagrafe Alberto Massimo Alessandro) è transitato per Fossoli prima di essere deportato a Mauthausen dove è morto. “Tra le lettere che ho raccolto e pubblicato nel volume ‘Mino Steiner. Il dovere dell’antifascismo’ – racconta il figlio Marco Steiner – ci sono anche quelle indirizzate al fratello minore Albe che ha poi concretizzato la sua attività di grafico, designer, sempre con un occhio potente sul sacrificio del fratello per trasmettere quello che era accaduto. Gli studi di progettazione del Museo, ad opera dello zio, vogliono esprimere il travaglio di queste persone. E proprio nel Museo di Carpi è conservata una lettera che mio padre ha scritto al fratello Albe dal campo di Fossoli”.
La storia del campo. A circa sei chilometri da Carpi, in località Fossoli, è ancora visibile il Campo costruito nel 1942 dal Regio Esercito per imprigionare i militari nemici. Nel dicembre del 1943 il sito è trasformato dalla Repubblica Sociale Italiana in Campo di concentramento per ebrei. Dal marzo del 1944 diventa Campo poliziesco e di transito (Polizei und Durchgangslager), utilizzato dalle SS come anticamera dei Lager nazisti. I circa 5.000 internati politici e razziali che passarono da Fossoli ebbero come destinazioni i campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück. Dodici i convogli che si formarono con gli internati di Fossoli, sul primo diretto ad Auschwitz, il 22 febbraio, viaggiava anche Primo Levi che rievoca la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine di “Se questo e un uomo” e nella poesia “Tramonto a Fossoli”. Fossoli è stato il campo nazionale della deportazione razziale e politica dall’Italia. Tra il 1945 e il 1947 è campo per “indesiderabili”, ovvero un centro di raccolta per profughi stranieri. Dopo la fine della guerra il Campo è utilizzato a scopo civile. Dal 1947 al 1952 è occupato dalla comunità dei Piccoli Apostoli di Don Zeno Saltini che a Fossoli danno vita a Nomadelfia. Dal 1954 alla fine degli anni ’60 vi giungono i profughi giuliani e dalmati provenienti dall’Istria e vi fondano il Villaggio San Marco. Di proprietà dello Stato, il Campo dopo il 1970 cade in uno stato di abbandono. L’apertura a Carpi nel 1973 del Museo Monumento al Deportato spinse il Comune a richiedere l’acquisto dell’area che, nel 1984, venne concessa “a titolo gratuito” grazie ad una legge speciale. (Fonte: fondazionefossoli.org/it/)