“Se noi pensiamo ad un Paese che è sempre lo stesso e non cambia mai allora la pandemia sarà una parentesi passata la quale ritorneremo alle solite relazioni sociali del passato. Come ha detto anche il Papa, spero che accetteremo il cambiamento che questo shock sta provocando, cambiando in meglio per essere una società migliore”. Ne è convinto Giuseppe Roma, sociologo e presidente del think tank “Rur – Rete urbana delle rappresentanze”, chiamato dal Sir a riflettere sull’impatto che il Covid-19 ha avuto sul mondo del lavoro italiano.
Oggi l’Inail ha diffuso il 23° report nazionale elaborato dalla Consulenza statistico attuariale dal quale emerge che i contagi sul lavoro da Covid-19 dall’inizio della pandemia allo scorso 31 dicembre sono 191.046, pari a un sesto del totale delle denunce di infortunio pervenute da gennaio 2020 e al 3,1% del complesso dei contagiati nazionali comunicati dall’Istituto superiore di sanità alla stessa data. “Nel 2021 – si legge nel report – i casi di contagio denunciati all’Istituto, benché non consolidati, sono diminuiti del 71,3% rispetto all’anno precedente, mentre il calo dei casi mortali è stato del 57,2%”. “Quest’ultimo dato – commenta Roma – ci indica un cambio di passo, la prima cosa è salvaguardare la vita umana”. L’Inail ha anche calcolato che l’assenza media dal posto di lavoro di un infortunato da Covid-19 è di un mese. Aspetto non irrilevante, considerato che nell’ultima settimana gli attualmente positivi in Italia hanno continuato ad essere più di 2,6 milioni. Per il sociologo “la moltiplicazione dei contagi dovuti alla variante Omicron con le regole attuali e le restrizioni che ne seguono hanno conseguenze organizzative preoccupanti”. “Non sempre il passaggio allo smart working di un contagiato è possibile, in tantissimi luoghi di lavoro si sono registrati ‘buchi’ di personale”, spiega, aggiungendo che
“all’emergenza sanitaria – per morti e malati gravi – si affianca quella socio-economica data dall’elevato numero di contagiati” che “non comporta solo l’assenza sul posto di lavoro ma anche la necessità di sanificazione degli ambienti, le misure per chi è entrato in contatto…”.
Secondo Roma, “dovremmo affrontare questa fase in un modo nuovo; forse in uffici dove tutte le persone hanno ricevuto le tre dosi di vaccino il tema contagi andrebbe visto in maniera diversa rispetto ad un anno fa, riadeguando le normative in funzione di questa nuova situazione”. Anche perché
“l’impatto di lunghe e diffuse assenze per Covid produrrà un effetto sul Pil”.
La pandemia ha fatto crescere il ricorso allo smart working. Dai dati rilasciati oggi dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche, emerge che prima della pandemia 2.458.210 occupati (pari all’11%) lavoravano da remoto (in telelavoro o in modalità agile). Nel 2020, per effetto delle misure restrittive legate all’emergenza sanitaria, il totale è schizzato a 8.890.481 (il 39,8% del totale degli occupati). E lo scorso anno sono stati 7.262.999 (pari al 32,5%). “Osservando la propensione al lavoro da remoto, quasi il 46% dei lavoratori – spiega l’Inapp – vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile, con un 24% circa che preferirebbe farlo almeno 3 giorni a settimana. Questa propensione al lavoro da remoto post pandemia è simile per tipologia d’azienda e genere”. “La pandemia – rileva Roma – ha accelerato fenomeni strutturali già presenti nell’organizzazione imprenditoriale del lavoro; in particolare lo smart working e la logistica”.
“Un sistema ibrido che preveda la possibilità di lavorare a distanza anche solo per qualche giorno la settimana” per il sociologo “offre troppi vantaggi perché si torni indietro”.
Tre gli aspetti “favorevoli” sottolineati da Roma: “Il lavoro ritorna ad una dimensione basata sul risultato, con il lavoratore che si riappropria della qualità del lavoro potendo anche disporre di una certa libertà di organizzazione”; poi ci sarebbero risvolti sulla mobilità “in relazione all’abitare e al modo in cui si sono organizzate le nostre città negli ultimi 20 anni. Vivere in quartieri dormitorio e perdere ore nel trasferimento casa-lavoro sono due aspetti negativi, che possono essere attenuati con lo smart working. Addirittura con forme di organizzazione del lavoro a distanza non domestiche, ma di quartier con ‘co-smart working’”; infine, “la possibilità di condividere il risparmio che le aziende hanno dallo smart working con i lavoratori”. Così facendo “il lavoratore lavora meglio, con più qualità, con una maggiore conciliazione lavoro-famiglia; se ritornassimo al cartellino e ai tornelli sarebbe un passo indietro”.
Anche le cronache di questi giorni confermano che, per alcuni giovani, la pandemia ha offerto un’occasioni per accedere al mondo del lavoro. Basti pensare ai medici specializzandi richiesti per far fronte alla campagna vaccinale o agli studenti universitari e neolaureati chiamati a sostituire gli insegnati assenti per garantire nelle scuole la continuità della didattica. Il rischio, però, è che passata l’emergenza tornino ad essere considerati “inutili”.
“Purtroppo – riconosce Roma – siamo un Paese che guarda le cose giorno per giorno. Invece bisogna fare in modo che queste esperienze diventino un anticipo dell’entrata nella vita attiva dei giovani. Prevedendo anche un piano di alloggi per chi è costretto a spostarsi, e ce ne sono molti di giovani disponibili a farlo. Non è possibile lasciare tutto allo spontaneismo, è molto meglio spendere delle risorse pubbliche per questo piuttosto che per bonus vari. Infine, bisogna far valere la disponibilità dei giovani anche nella loro stabilizzazione futura”.
Per Roma, “una maggiore presenza in famiglia consentita dallo smart working e un maggiore ruolo per i giovani nel mondo del lavoro contribuirebbero a costruire una società migliore”.