In Italia, dall’inizio dell’anno, sono 92 le donne vittime di femminicidio, nella maggior parte dei casi per mano del partner, ex o attuale, o di persone vicine al nucleo familiare. Se ne è parlato, mercoledì 6 ottobre, in occasione della presentazione del volume “Violenza sulle donne. Antichi pregiudizi e moderni mutamenti di identità, ruoli e asimmetrie di potere”, a cura di Maria Rosa Ardizzone, Giuseppe Chinnici e Maria Francesca Francesconi (Studium). “Se le donne continuano ad essere uccise è dovuto principalmente ad una profonda asimmetria di potere tra uomini e donne esistente nella società”, spiega al Sir la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, intervenuta alla presentazione del libro, frutto di un progetto di ricerca nato all’interno della Fondazione Ozanam-San Vincenzo de’ Paoli, un ente morale-onlus impegnato per la promozione della solidarietà sociale e la tutela dei diritti dei più deboli.
Le cronache non cessano di registrare femminicidi, tanto che si potrebbe quasi parlare – in negativo – di assuefazione. È un fenomeno che si può ancora arginare o è destinato a rimanere un fiume in piena?
Dagli ultimi casi saliti alle cronache emerge un elemento grave. A evitare il femminicidio non basta la denuncia che le donne fanno con coraggio e spesso non bastano neppure le misure adottate, come l’allontanamento, e in alcuni casi non è sufficiente neanche la condanna per stalking. Queste circostanze devono farci riflettere perché l’Italia ormai possiede un quadro normativo robusto, di cui fanno parte anche misure di prevenzione solide. C’è allora un ‘vulnus’ che non possiamo nasconderci e che riguarda in primo luogo l’applicazione rapida e tempestiva delle misure di protezione. Se non si riescono a garantire questi elementi, si rischia di spingere tante altre donne a non denunciare. E le conseguenze sappiamo quali possono essere. Il caso del braccialetto elettronico è emblematico: in passato si è parlato di una scarsa disponibilità dei dispositivi, ma abbiamo appurato che non è così. Servono giudici che decidano di usarli a seguito di una corretta valutazione della violenza e del pericolo in cui si trova la donna.
Non bastano le norme, servono consapevolezza e formazione per applicarle in maniera corretta e questa preparazione, che è diffusa nelle Procure più grandi, non lo è altrettanto nei centri più piccoli. Questo è il primo argine alla violenza e questa è la sfida che dobbiamo vincere.
Ci sono poi alcuni correttivi normativi. L’arresto in flagranza per chi viola le misure di protezione è stato appena introdotto nella riforma del processo penale, ma richiederà al più presto un aggiustamento per renderne realmente efficace l’applicazione da parte dei magistrati. Presto, poi, speriamo di poter introdurre anche il fermo di 48 ore per chi non è colto in flagranza.
Molti femminicidi avvengono in famiglia, sotto gli occhi dei minori. Le donne che denunciano spesso si ritrovano in casa i loro assassini e quelle che non denunciano lo fanno per “proteggere” i figli. Si può rompere questo circolo vizioso?
Si può. Il modo è, da un lato, garantire alle donne la protezione necessaria per rompere la spirale di violenza, ma, dall’altro, è incrementare la comunicazione tra ambiti processuali distinti come quello civile e penale. Il 95% dei tribunali civili non è in grado oggi di quantificare i casi di violenza emersi durante i procedimenti di separazione giudiziale o di assegnazione dei figli.
Questa violenza domestica resta nell’ombra perché penale e civile procedono su binari paralleli senza scambi di informazioni.
Un primo passo è stato fatto dal Codice rosso con l’obbligo informativo, ma questo non basta ad evitare situazioni di vittimizzazione secondaria che ancora è troppo diffusa. Basti pensare all’aberrazione del riconoscimento in sede processuale della sindrome di alienazione parentale nei casi in cui il minore è vittima di violenza assistita.
Già il termine “femminicidi” sottintende che dietro l’uccisione e la violenza sulle donne c’è un problema culturale. In Italia si deve ancora lavorare sulla relazione asimmetrica tra uomini e donne?
Noi oggi dobbiamo convincerci che se le donne continuano ad essere uccise è dovuto principalmente ad una profonda asimmetria di potere tra uomini e donne esistente nella società. Ancora dopo secoli, molti uomini si considerano “padroni” delle loro donne e non riescono a gestire i sentimenti e la rabbia che provoca in ogni individuo la fine di una relazione.
Sono la disparità nelle relazioni, pregiudizi e stereotipi a fomentare la cultura della sopraffazione. La violenza contro le donne è l’altra faccia di quei numeri che descrivono il tasso di disparità e disuguaglianza che pesa sulle donne.
Noi vediamo la punta dell’iceberg attraverso il femminicidio e gli altri reati di violenza maschile, ma il problema è strutturale e investe tutti gli ambiti sociali: la disparità salariale e la precarietà del lavoro, le progressioni di carriera, l’accesso alle cariche pubbliche e istituzionali, la giustizia, i rapporti personali, familiari, economici. Le donne fanno fatica ad emergere in una società che è costruita al maschile, in cui alla differenza sessuale non è attribuito un significato positivo e alla maternità non è riconosciuta alcuna funzione sociale. Oggi però abbiamo una grande occasione: usiamo il piano di ripresa post-Covid come volano per un cambiamento del paradigma di sviluppo, per liberare competenze e capacità delle donne nella società. Anche la lotta contro la violenza di genere non potrà che avvantaggiarsi di donne autonome e libere grazie al lavoro e all’impegno nella società.