Una visita davvero speciale. Qualche giorno fa, ero a Rimini per una serie d’incontri su “La terrazza della Dolce vita”. In quell’occasione il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi, mi ha invitato a visitare in anteprima il Fellini Museum. Impossibile non prendere al volo un’occasione del genere sia per quanto ha rappresentato Fellini nella cultura del nostro Paese sia per quanto ha ricordato Papa Francesco a proposito del film “La strada”: “Fellini ha saputo donare una luce inedita allo sguardo sugli ultimi. In quel film il racconto sugli ultimi è esemplare ed è un invito a preservare il loro prezioso sguardo sulla realtà. Penso alle parole che il Matto rivolge a Gelsomina: ‘Tu sassolino, hai un senso in questa vita’. È un discorso profondamente intriso di richiami evangelici”.
Così mi sono lasciato guidare negli spazi del Museo che aprirà al pubblico il 19 agosto e che si dispiega su una parte importante del centro storico: dal cinema Fulgor alla Rocca malatestiana con la grande “piazza dei sogni” che li collega.
Il Museo oltre ad una serie di collezione di disegni, di costumi, di sceneggiature, di lettere originali, di spartiti musicali si presenta al visitatore soprattutto come un viaggio fra esperienze multimediali diverse. Nel quattrocentesco Castel Sismondo si è immersi in una macchina ad alta densità immaginaria che coinvolge profondamente lo spettatore: Studio Azzurro, con i curatori Marco Bertozzi (Università Iuav Venezia) e Anna Villari (Uninettuno University) accompagna in un viaggio nel segno della visionarietà, fra Rimini e Roma, tra Marcello Mastroianni e la Giulietta Masina, tra il “Libro dei sogni” e le musiche di Nino Rota.
Molto suggestive le sale; le racconto attraverso le mie emozioni. Anzitutto nella magica Sala delle altalene sono stato coinvolto in un intreccio fluttuante di visioni, fra film di Fellini e cinegiornali, documentari, materiali d’epoca. Una sala nella quale risulta evidente il rapporto con la storia del Novecento: una ininterrotta vibrazione iconica con cui l’opera del regista narra la complessità della società italiana, sollevandone aspetti dell’inconscio profondo, in una sfrenata passione per aspetti arcaici, sottaciuti, non normalizzati. Lontani dalla macchina mitologica della modernità. In questo senso Fellini rappresenta un testimone fondamentale del Paese in cambiamento, un catalizzatore delle tendenze in atto, laddove alto e basso s’inseguono e si riflettono in una incredibile geminazione mediale. Ancora una volta emerge l’acutezza del pensiero di Papa Francesco sul cinema e sull’audiovisivo nella recente intervista: “Viviamo nel tempo dell’immagine e questo tipo di documenti – ha sottolineato il Santo Padre – è ormai diventato per la nostra storia – e sempre più lo diventerà – un complemento permanente alla documentazione scritta. Per di più si tratta di documenti dal carattere intrinsecamente universale perché trascendono i confini linguistici e culturali e possono essere compresi con immediatezza da tutti”.
Proseguendo nella visita si giunge alla Sala delle professioni, dove risalta quel cerchio appassionato di vicinanze e di amicizie fondamentali per la realizzazione dei film di Fellini. La sua appartenenza a una comunità di artisti, artigiani, attori, professionisti emerge da una serie di laici confessionali attivati dallo spettatore stesso. Un afflato denso di evocazioni, in cui affiorano scie figurative in grado di evocare l’idea di bottega, l’autorità del principe-produttore, la persistenza delle immagini. Insomma, l’idea del grande cinema quale arte inscritta nell’Italia del Novecento ma nutrita di poderosi germi a lei antecedenti. In questa sala non era possibile dimenticare un’amicizia davvero speciale: quella tra Federico Fellini e padre Nazareno Taddei. Un’amicizia che ha segnato, con il film “La dolce vita”, la vicenda personale di Taddei con una ferita che, come ebbe a dire egli stesso, si è rimarginata solo il 24 novembre 2005, in occasione del conferimento del Premio Bresson da parte di Mons. Francesco Cacucci, allora presidente della Commissione Episcopale per la Cultura e le Comunicazioni sociali della Cei. Accanto a Taddei ci sono state altre amicizie importanti tra cui padre Fantuzzi che ricordava qualche anno fa su “Avvenire”: “Se ho potuto beneficiare della sua amicizia, fatta di tante confidenze, osservazioni, telefonate e confronti dopo aver letto le mie recensioni attorno alle sue pellicole lo devo soprattutto al direttore della fotografia Peppino Rotunno, che mi permise di essere sui set dei suoi film, e a padre Angelo Arpa, amico intimo del regista, quello che è stato per tutti il prete di Fellini. Fu Arpa a darmi le prime chiavi di lettura per capire la grandezza del genio di Rimini, a cominciare dallo Sceicco Bianco”. Non va dimenticata poi “la stretta e cordiale amicizia” con il cardinale Silvestrini che ebbe modo di conoscere Fellini tramite Sergio Zavoli.
A seguire la straordinaria sala del Libro dei sogni. Soffiando su una piuma posta all’altezza degli occhi del visitatore sopra la teca contenente il “Libro dei sogni”, si attivano una serie di schermate video che accompagnano all’interno del grande libro d’artista. Le pagine del “Libro dei sogni” appaiono cosi magicamente sulla parete e permettono, come gigantografie, di addentrarsi nei disegni e nella scrittura onirica del regista, nelle caverne dei suoi desideri e delle sue paure.
Da un’installazione ironicamente fuori scala – la Sognante, una assopita Anitona che osserva brani rallentati de “La dolce vita” – sino ai monitor con le lettere e le fotografie inviate a Fellini da migliaia di persone desiderose di una particina, la visita a Castel Sismondo è ricca di suggestioni e supera decisamente l’idea di Museo come luogo di memorabilia legate a un nostalgico “fellinismo”.
La novità dell’impianto musicale la si coglie molto bene raggiungendo l’altro polo del Museo, Palazzo Valloni, alla base del quale sta il Cinema Fulgor, recentemente restaurato da Dante Ferretti (in uno stile liberty-hollywoodiano che richiama i fasti del secolo del cinema). La storia ricorda che Fellini vide proprio qui il suo primo film, “Maciste all’inferno”, seduto sulle ginocchia del padre. E sempre qui iniziò la sua carriera di vignettista e umorista, disegnando locandine e caricature di divi hollywoodiani e amici riminesi. Nei piani superiori del palazzo ci si addentra in un luogo capace di attivare ulteriori evocazioni – attraverso installazioni come “La casa del mago” o “La stanza delle parole” – ma, soprattutto, originali percorsi didattici e di ricerca – grazie all’utilizzo delle “moviole cittadine” – nonché di consultazione dei materiali acquisiti in passato dalla Fondazione Federico Fellini.
Come fece Fellini, anche il Museo di Rimini sembra sparigliare le carte, per offrire qualcosa di felicemente inaudito e fortemente immaginativo. Fellini torna così nella sua città natale grazie a un lavoro di team speciale capeggiato da Lumière & Co di Milano (con Anteo, Studio Azzurro, Marco Bertozzi, Anna Villari, Federico Bassi, per il progetto e la realizzazione dei contenuti multimediali) e coordinato da Orazio Carpenzano (per il progetto delle architetture e degli allestimenti), con Tommaso Pallaria, Alessandra Di Giacomo, Studio Dismisura e altri… Una grande responsabilità a quasi 30 dalla morte del regista, non solo per Rimini ma per l’intera cultura italiana.