Un “credente nell’umanità”, un “pacifista radicale e concreto”. Soprattutto un “uomo che aveva una grande passione per la vita”. Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità di Milano, è stato per lunghi anni amico di Gino Strada, con il quale ha condiviso tanto impegno sul versante della solidarietà, dei diritti umani, dell’attenzione agli ultimi. Al Sir confida di un pomeriggio, con una discussione accesa, quando Strada avrebbe voluto tornare per l’ennesima volta in Afghanistan mentre la moglie Teresa, con la quale aveva fondato Emergency, faceva presente alcuni gravi rischi. “Ma lui non conosceva né accettava alibi, aveva solo in mente che alla gente provata dalla guerra occorressero cure mediche. Non fu possibile fargli cambiare idea”.
Don Virginio, cosa ci lascia Gino Strada?
Vedo l’eredità di un grande uomo, uno che ha speso la vita per gli altri. La sua è una gigantesca eredità di concretezza, di passione per la vita, di amore per il prossimo. Il suo rifiuto radicale per le armi era un inno alla vita. La sua preoccupazione quotidiana si rivolgeva a chi era nel bisogno, ai bambini mutilati dalle bombe, ai civili vittime dei conflitti. Strada è stato in mezzo a decine di guerre senza mai schierarsi, se non dalla parte di chi finiva in sala operatoria o in una corsia di ospedale.
Un medico che denunciava la violenza…
Direi piuttosto un medico – un uomo – di poche parole e di tanti fatti. Certo aveva urlato mille volte per denunciare conflitti, interessi militari, violenze di ogni genere. Ma poi lo trovavi a organizzare ospedali, a motivare e istruire giovani chirurghi, a portare sollievo a chi aveva perso tutto proprio a causa della guerra. E non trascuriamo la capacità organizzativa sua e della prima moglie, Teresa: perché il volontariato deve accompagnarsi con la professionalità, con la qualità degli interventi, perché chi è povero, solo, ammalato merita di più, merita il massimo.
Strada dunque trasmetteva la sua passione per l’umanità, non è vero?
Certamente. Gino era, in questo senso, contagioso. A partire da chi gli stava accanto. Non a caso la figlia Cecilia ha accolto la notizia della morte del padre mentre era impegnata nel Mediterraneo a salvare vite umane. Sì, Strada ha testimoniato una concretezza che nasce dal rispetto assoluto della vita, e sotto questo profilo vedo una continuità con gli insegnamenti di Papa Francesco.
La sua figura è stata tante volte dirompente, spesso scomoda.
Il pacifismo, il servizio agli ultimi, il no alla violenza di frequente risultano scomodi. Egli stava dalla parte dei migranti, di chi subisce le vergognose ferite inferte dalle bombe e dal traffico d’armi, di chi è vittima di ingiustizie. Era aspro e tranchant in queste sue denunce, non usava mezzi termini. Veniva da una scuola di impegno, di volontariato, sin dagli anni giovanili, dal ’68, in cui si voleva cambiare il mondo. La sua presenza non era “neutra”: basti pensare a come si era ultimamente schierato a favore dei vaccini anti-Covid.
Attorno a sé il fondatore di Emergency ha avuto molti giovani. Quale messaggio lascia alle nuove generazioni?
Una testimonianza vissuta di impegno, di dedizione e generosità, uno stare dentro la realtà impegnandosi, laddove occorre, per cambiarla. Sottolineo in particolare la sua idea di volontariato: il quale non dev’essere “altro” rispetto alla propria esistenza, al proprio mestiere. No, come ho già detto, nel volontariato occorre riversare se stessi, mettendo a frutto la propria professionalità, le proprie migliori capacità. Ecco perché anche sotto il profilo medico voleva ospedali belli, efficienti, con dottori capaci di curare le persone avendo a cuore le sorti degli stessi pazienti. La professionalità deve stare dentro il volontariato. Gino ci ricorderà sempre anche questo.