L’orizzonte educativo delle serie Tv. In dialogo con Armando Fumagalli (Univ. Cattolica): “L’orientamento al bene, specificità italiana”

Raccontare 70 anni di serialità Tv si può? Sebbene l’estensione temporale sia non poco vasta (senza contare le varie industrie culturali in campo), e consapevoli anche di una (e forse più) mutazione televisiva, l’impresa non appare affatto azzardata o impossibile. Al contrario. È uscito infatti nelle librerie “Storia delle serie Tv”, ricerca in due volumi curata da Armando Fumagalli, Cassandra Albani e Paolo Braga, che esamina attraverso una pluralità di approcci, sguardi e competenze, sette decenni di racconti Tv: da “La piovra” a “Colombo”, da “Don Matteo” ai recenti “Game of Thrones” o “The Crown”.  Di questa impresa editoriale, ma soprattutto del panorama produttivo e fruitivo delle serie Tv oggi, ne abbiamo parlato con Armando Fumagalli, ordinario di “Teoria dei linguaggi” all’Università Cattolica e direttore del master in International screeenwriting and production.

Raccontare 70 anni di serialità Tv si può? Sebbene l’estensione temporale sia non poco vasta (senza contare le varie industrie culturali in campo), e consapevoli anche di una (e forse più) mutazione televisiva, l’impresa non appare affatto azzardata o impossibile. Al contrario. È uscito infatti nelle librerie “Storia delle serie Tv”, ricerca in due volumi curata da Armando Fumagalli, Cassandra Albani e Paolo Braga, che esamina attraverso una pluralità di approcci, sguardi e competenze, sette decenni di racconti Tv: da “La piovra” a “Colombo”, da “Don Matteo” ai recenti “Game of Thrones” o “The Crown”.

All’opera, dedicata alla memoria di Sara Melodia, responsabile sviluppo progetti della Lux Vide scomparsa nel 2020, ha collaborato un team di accademici ed esperti del settore realizzando così uno studio “sinfonico”, incentrato sui titoli più rappresentativi e sull’analisi delle tipologie di prodotti. Di questa impresa editoriale, ma soprattutto del panorama produttivo e fruitivo delle serie Tv oggi, ne abbiamo parlato con Armando Fumagalli, ordinario di “Teoria dei linguaggi” all’Università Cattolica e direttore del master in International screeenwriting and production.

 

 

Sono state rese note da pochi giorni la candidature ai 73i Emmy, i cosiddetti premi Oscar della Tv. A guidare le nomination sono “The Crown” e “The Mandalorian”. Perché?
“The Crown”, serie inglese prodotta da Netflix, è un capolavoro perché lo sceneggiatore, Peter Morgan, prende spunto dalla vita di Elisabetta e delle persone che le sono vicine, per scandagliare a fondo il tema della responsabilità. Dobbiamo agire solo in base ai nostri impulsi e desideri o abbiamo anche una responsabilità che ci guida? Come scrive Paolo Braga nel libro, paradossalmente lo sceneggiatore, che nelle dichiarazioni è a favore della prima parte del dilemma, invece, nel raccontare, spesso fa capire che è giusto agire in base alla responsabilità. Le puntate delle stagioni uscite finora prendono spunto da episodi anche minimi (Churchill che deve andare in pensione e non vuole, l’incontro di Filippo con gli astronauti che sono stati sulla Luna) per toccare temi universali e di grande profondità. “The Mandalorian riprende temi western (difendere i deboli, sacrificarsi per il bene) nel contesto del mondo narrativo di “Guerre stellari”. Al di là di innovazioni più o meno superficiali, quello che secondo me fa grande una serie (o un film) è andare in profondità e dire qualcosa su grandi temi universali. Segnalo anche che da circa un anno con alcuni collaboratori del volume e altri amici abbiamo dato vita a un sito di orientamento sulle serie Tv, Orientaserie.it, che può essere uno strumento molto utile, anche in ambito culturale ed educativo.

Sempre sugli Emmy, ne escono forti i gruppi Hbo, Netflix e Disney+. Nel vostro studio esaminate con attenzione il mercato delle piattaforme. Cosa ci può dire? E la Tv generalista?
La televisione generalista, data più volte e troppo facilmente per morta, non crollerà così facilmente come molti dicono. Manterrà un suo spazio, forse poco a poco più ridotto, ma lo manterrà. Siamo reduci da una stagione in cui in Italia una serie generalista, “Doc. Nelle tue mani”, ha fatto ascolti altissimi, che nessuno avrebbe pronosticato. Cosa analoga per altre serie come “Lolita Lobosco” e “Mina Settembre”. Questo perché gli autori italiani amano ancora costruire personaggi empatici, in qualche modo eroi positivi e buoni (pur con i loro difetti), che raccolgono grande affetto da parte del pubblico. Pensiamo al perdurante successo più che ventennale (caso unico in Europa) di “Don Matteo”, e in misura leggermente minore di “Che Dio ci aiuti” e “Un passo dal cielo”. Certamente le piattaforme, essendo globalizzate e distribuendo i prodotti in più di cento Paesi, possono permettersi investimenti economici sulla singola serie che Rai o Mediaset non possono concedersi… Ma tutto il bello non è da una parte sola e quello che sta succedendo è che ci sono prodotti che stanno mettendo insieme Rai o Mediaset e qualcuno di questi grandi investitori internazionali, come nel caso delle serie “Medici”, “Leonardo” e “L’amica geniale”.

Nella ricerca si affronta molta serialità statunitense, ma ampio spazio viene concesso anche alle produzioni europee, in primis britanniche come “Downton Abbey”. Come legge il fenomeno?
“Downton Abbey” è un caso molto interessante perché buona parte del suo successo prende vita da una considerazione antropologica del suo autore, Julian Fellowes, nobile e cattolico: la maggior parte delle persone sono, con parole sue, “decent people”, persone perbene. Fellowes ammirava la capacità tecnica delle serie americane, la loro intensità di racconto, il loro ritmo, ma era stufo di vedere omicidi, tradimenti, serial killer, famiglie sfasciate… così ha lanciato la sfida di una serie in cui la maggior parte delle persone sono persone “normali” con i piccoli-grandi conflitti di una vita normale. Per questo al Master dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che dirigo chiediamo agli aspiranti sceneggiatori di studiare “Downton Abbey” in dettaglio. Occorre trovare il modo di narrare in modo coinvolgente ed emozionante anche il bene e la vita ordinaria, come in altro modo fa una serie come “This is Us”. Tornando alla sua domanda, le serie inglesi sono interessanti perché sono spesso un ponte fra la sensibilità europea e quella americana. Spesso da lì nascono successi che gli americani poi rendono globali.

Nel testo analizza con attenzione le produzioni italiane, tracciandone una parabola dagli anni ’90 a oggi. Cosa è cambiato?
C’è sicuramente una maggior internazionalizzazione, un maggior ritmo, una maggior varietà di generi.

Ma c’è anche una specificità italiana che è una nostra ricchezza e che non dobbiamo perdere: l’orientamento al bene.

Anche se qualche volta scade nel “politically correct” (soprattutto su temi che riguardano l’identità di genere), la nostra fiction è una fiction che tende a trovare soluzioni, a risolvere i contrasti, a far vedere che il bene si può fare. Ha quindi una forte valenza educativa che invece molta serialità americana e internazionale non ha, e questa mi sembra una ricchezza, che nasce ancora dall’impostazione della Rai come servizio pubblico e dalla responsabilità sociale e civile che molti professionisti ancora sentono.

 Mette inoltre in evidenza alcuni nostri successi dalla forte vocazione internazionale come “Montalbano”, “L’amica geniale” o “Medici”.
Credo che con serie come queste abbiamo trovato la strada per realizzare prodotti “generalisti” (cioè per un pubblico largo, diversamente da serie come “The Young Pope”, che sono pensate per una nicchia) e che possano raggiungere un mercato internazionale. Il mondo della produzione italiana è in grande fermento, perché la buona accoglienza di queste serie ha creato la possibilità di realizzarne altre. Qui si apre lo spazio per giovani ben formati, per diventare sceneggiatori, registi, produttori creativi. Sono professioni in cui non ci si improvvisa, occorre prepararsi nei migliori percorsi formativi, e credo che sia importante che anche persone con formazione cattolica facciano sentire la loro voce in questa agorà mediale, come hanno fatto Fellowes e altri come lui, pur se finora non sono stati molti… Lo spazio ci sarà.

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