Lo ricorda come un “uomo delle beatitudini”, un “martire della giustizia”. Ne sottolinea la forza della fede grazie alla quale “ha avuto il coraggio incredibile e incrollabile di spendere la propria vita per gli altri”. Così nelle parole di don Cesare Rattoballi, parroco dell’Annunciazione del Signore, nella periferia di Palermo, rivive Paolo Borsellino, nel 29° anniversario della strage di via d’Amelio, in cui il magistrato perse la vita assieme ai suoi “angeli custodi”, gli agenti di scorta. Il sacerdote era al fianco della vedova di Vito Schifani, suo cugino, nel giorno dei funerali delle vittime della strage di Capaci, quando lei dall’ambone invocò la conversione dei mafiosi. E, da quel giorno, il suo ministero sacerdotale e l’impegno e la vita del magistrato s’incrociarono più volte. “Non desidero recriminare, ma Paolo fu lasciato solo a portare avanti quel valore nel quale ha creduto: la giustizia – dice -. Non fu invece mai lasciato solo dalla sua famiglia, mentre fu abbandonato da alcune istituzioni”.
Quale esempio ha lasciato Paolo Borsellino?
Paolo era profondamente credente, ed era quella peculiarità che guidava la sua vita. Non tralasciava mai di partecipare alla Messa della domenica. Il suo rapporto con la fede gli ha permesso di avere quella capacità di sensibilità verso gli altri. Ciò aveva inciso in lui il grande rispetto per la persona. Rispetto che emerge da tante testimonianza di coloro che gli sono stati accanto, e da quelli che incontrava occasionalmente.
È noto che avesse anche un particolare rapporto con l’Eucaristia…
Il suo rapporto con l’Eucarestia l’ho appreso da diversi uomini della sua scorta. Quando lui si trovava fuori Palermo, specialmente nei giorni festivi, non dimenticava mai di partecipare alla Messa. Perché ai suoi “angeli” diceva “andiamo a Messa”. E alcune volte i suoi uomini di scorta gli dicevano: “Dottore, questa domenica lasci stare!”. E lui rispondeva: “Io ho un appuntamento!”. Quando Paolo fu ucciso, alcuni di loro mi dissero: “Ora comprendiamo da dove traeva il coraggio e l’amabilità”.
Quale valore aveva la famiglia per Paolo Borsellino?
Paolo aveva tante coppie di amici. Mi viene da dire che Paolo facesse “il consulente matrimoniale”. Diverse di queste coppie si confidavano con lui. Lui le ascoltava e dava loro consigli positivi per la loro unione e per la loro vita familiare. Cercava di tenere unite le famiglie, perché ne conosceva il valore inestimabile. Nella famiglia d’origine apprese l’importanza del dialogo che ha formato Paolo alla capacità di ascolto, confermata da tante testimonianze e, soprattutto, dalle persone che interrogava per le indagini.
Un altro valore in cui credeva tanto era quello della giustizia. Cosa spingeva quella sua vocazione?
Paolo aveva un profondo senso della giustizia, perché lui sentiva il dovere di fare chiarezza sui tanti punti oscuri dei fatti accaduti in Sicilia. Tanto da farne una autentica vocazione. Era consapevole del rischio che correva e diceva che “ho sempre accettato più che il rischio le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e anche di come lo faccio”. E lo faceva perché credeva profondamente nel suo lavoro. Qualche settimana prima che fosse ucciso lui mi confidò a casa sua, nel suo studio, che era arrivato il tritolo per lui. Io gli dissi: “Ma non si può fare nulla per l’incolumità della tua persona?”. Così come avvenne per il maxi processo, quando fu allontanato da Palermo. Lui serenamente mi disse: “Io sono un uomo delle istituzioni e credo profondamente nella mia scelta, per cui non posso fuggire o nascondermi: io mi preparo a tutte le evenienze”.
Oggi, che cosa prova alla luce di quello che è successo?
Io ho un grande rammarico nei confronti di tutte quelle realtà che erano preposte alla giusta tutela di Paolo. Sapevano e conoscevano che correva il rischio di essere ucciso e non hanno fatto nulla per evitarlo. Oggi alla luce di tanti fatti, non mi faccio tanta meraviglia che, all’interno della stessa magistratura, vi fossero alcuni magistrati invidiosi del ruolo di Paolo. Tanto che il pool antimafia, guidato dal dottor Antonio Caponnetto, fu smembrato.
Dopo la strage di Capaci, ci fu un evento in cui lei chiese a Paolo Borsellino di partecipare…
Coinvolsi Paolo a intervenire alla fiaccolata organizzata dagli scout Agesci, di cui ero assistente regionale, nell’anniversario del primo mese della morte di Giovanni Falcone, per ricordarlo assieme a Francesca Morvillo e agli uomini di scorta, tra cui mio cugino, Vito Schifani. Da tutta Italia arrivarono a Palermo cinquemila giovani dello scoutismo Agesci. Chiesi a Paolo di parlare loro. Fu un discorso veramente memorabile e meraviglioso. Assieme a lui abbiamo scelto di scrivere un messaggio all’interno del testimone che avremmo affidato loro: le beautitudini del Vangelo di Matteo – Capitolo quinto, dal versetto uno al versetto 12 -. Paolo era affascinato da questa magna carta del cristiano, dove lui si rispecchiava. Ma in modo particolare mi piace citare i versetti 6 e 10: 6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 10 Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Secondo lei, quanto questi due versetti rispecchiano la storia e la vita di Paolo Borsellino?
Paolo, in particolar modo, in essi rispecchiava la sua scelta non solo professionale, ma anche la sua scelta vocazionale di magistrato, che svolgeva con competenza e con molta passione. Aveva diversi contatti con i giovani, che gli scrivevano, e lui rispondeva loro. Mi diceva che è questa la strada vincente: parlare ai giovani, per formare le coscienze delle nuove generazioni, e formarli a non avere compromessi con la vita criminale o mafiosa. Quindi, possiamo rifarci alle parole di san Giovanni Paolo II, e cioè che, tra i martiri della giustizia e indirettamente della fede, potremmo – anzi, dovremmo – annoverare Paolo Borsellino.
Quale fu il vostro ultimo incontro?
Il venerdì mattina precedente il suo eccidio, due giorni prima – il 17 luglio 1992 -, andai alla procura del Tribunale di Palermo, nel suo ufficio. Parlammo della situazione che si era creata dopo la strage di Capaci, della testimonianza che portavo assieme alla moglie di mio cugino, la signora Rosaria Costa. Dopo la sua dichiarazione fatta ai funerali, tanti uomini della mafia cercavano di mettersi in contatto con Paolo Borsellino, perché ad alcuni non era piaciuto quel modo di procedere della mafia. Ci eravamo dati appuntamento per incontrarci di nuovo la settimana successiva. Nel congedarmi, lui mi disse: “Fermati ancora, ho da chiederti di confessarmi, perché mi preparo, non si sa mai quale sia il momento”. Aveva un grande amore per il Signore e, se si doveva presentare dinanzi a Lui, voleva farlo con una coscienza purificata. La sua fede in Cristo gli dava la forza d’affrontare questo martirio, come anche il suo credo nel valore della giustizia.
Che cosa ha generato la morte di Borsellino?
C’è stata una rivolta della società civile. Si è sviluppata la denuncia del pizzo, l’impegno di tanti per la legalità, dalle scuole all’associazionismo. Avendo avuto modelli come Falcone e Borsellino, alcuni giovani sono entrati in magistratura o si sono impegnati nel sociale. È stata la reazione che Paolo auspicava.