“Qual è il senso, il ruolo della sofferenza nell’economia della salvezza?”.L’ inquieta domanda che Mario Pomilio interpone tra se stesso, noi e il personaggio Manzoni, quello del suo “Il Natale del 1833” è la stessa che si presenta a chiunque abbia fatto i conti con la sofferenza. L’affetto e l’apprensione con cui tutti, credenti o no, stanno seguendo le notizie sull’intervento cui è stato recentemente sottoposto Francesco, la stessa attenzione del Papa per la sofferenza dei bimbi degenti nei reparti oncologici, ci fanno riflettere su quanto la sofferenza, interiore e fisica, abbia attraversato l’esistenza di tutti. Ponendoci domande sul senso stesso della vita. Il Manzoni di Pomilio era sconvolto da quegli interrogativi dopo il lutto per la morte dell’amata moglie Enrichetta e di due figlie, e questo incontro tra il dolore reale – e quello narrato – ci fa riflettere su quanto il percorso dell’arte, da quella della parola a quella dell’immagine, abbia attraversato la nostra storia. Uno dei fondatori della nuova poesia del Novecento, Ungaretti, riuscì a convogliare una parte della sua disperazione per la scomparsa del fratello e poi del figlioletto in un’opera, “Il dolore”, che ha tradotto in parole di ciò che è altrimenti indicibile. Perché se la perdita di un figlio è qualcosa di non spiegabile, il dolore interiore, per il quale è in ogni caso arduo trovare parole, si è manifestato attraverso opere che sono diventate punti di riferimento planetari. Si pensi all’Urlo di Munch in tutte le sue versioni, che rappresenta quella che poi Gadda avrebbe chiamato la Cognizione del dolore: “Sentii che un grande urlo infinito pervadeva la natura” scrive a fine Ottocento il grande artista norvegese per tentare di spiegare ciò che non è dicibile con piane e raziocinanti parole. Lo stesso Gadda in quella sua opera sul dolore aveva tentato di narrare la propria sofferenza per la morte della madre attraverso i sensi di colpa del protagonista. La sventura di non poter vedere il mondo, dopo aver gustato la sua bellezza – e il fascino della lettura – attraversata da Borges nel suo graduale sprofondamento nella cecità, è stata alleviata dall’ascolto e dalla creazione di capolavori che rimarranno nella cultura umana. Come non andare, d’altronde, all’esempio dello scrittore Joë Bousquet, arruolatosi nell’esercito francese allo scoppio della Grande Guerra e ferito poco tempo prima dell’armistizio: rimarrà paralizzato per il resto dei suoi giorni, ma, attraverso la poesia, troverà il senso profondo della sua esistenza segnata altrimenti dal dolore e dalla solitudine. Il nostro Pirandello aveva conosciuto di persona la sofferenza, quella psichica della moglie e quella della prigionia del figlio Stefano durante la prima guerra mondiale, e quando la traspone nei suoi racconti o nel teatro – l’incapacità di essere se stessi, la paura degli altri, l’incomprensione, la malattia – coglie quelle corde profonde della nostra anima che difficilmente le parole riescono a dire.
Anche Bernanos, soprattutto nel “Diario di un curato di campagna” ha saputo cogliere gli aspetti più profondi della sofferenza umana, così come Dostoevskij. Lo scrittore russo in “L’idiota” ha narrato anche il dolore di una malattia, l’epilessia, che, insieme al demone del gioco renderanno la sua vita una continua lotta tra bene e male, salute e malattia. E, d’altronde, lo scenario doloroso della sofferenza materna e degli spasmi fisici del Figlio, dipinti, disegnati, scolpiti, narrati in versi o in prosa dall’origine della nostra era sta a dimostrare, per tornare al Manzoni di Pomilio, che “la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio”.