C’è un filo sottile e tenace che lega alcuni eventi della cronaca italiana: la responsabilità. Intesa non solo come il dovere di rispondere delle conseguenze dei propri gesti e delle proprie scelte, ma anche come consapevolezza dei propri atti nell’esercizio di una funzione pubblica e non solo. Dunque, in una chiave proattiva.
Ecco alcuni fatti che, in questi giorni, ci hanno toccato per la loro drammaticità, per la loro esposizione mediatica, per la loro portata simbolica: lo schianto doloso della funivia del Mottarone nel quale hanno trovato la morte 14 persone; la scoperta della contaminazione di un terreno coltivato a mais, con il titolare dell’azienda accusata che sogghignando dice: “chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi!”; il ritorno prepotente, dopo ben 17 anni, della vicenda di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo e sempre disperatamente ricercata dalla sua mamma. Tre vicende diversissime nelle quali il tema della responsabilità personale emerge in tutta la sua evidenza.Da un lato c’è la necessità che venga stabilita la verità dei fatti, che siano individuati gli autori materiali dei reati (tali sono) e che vengano stabilite le responsabilità di ciascuno dei soggetti coinvolti. Dunque, che la legge umana faccia il suo corso, restituendo giustizia alle vittime di tre vicende tanto diverse tra loro, ma emblematiche della nostra fragilità come persone e come sistema. Dall’altro è inevitabile porsi qualche domanda sulle ragioni che possono offuscare a tal punto la coscienza, da spingere esseri umani come noi a mettere in atto comportamenti non solo perseguibili sotto il profilo penale, ma produttori di lutto, dolore, disfacimento delle relazioni e profonda inquietudine sociale.
Cosa può spingerci a tradire la fiducia di chi affida nelle nostre mani la propria vita? Il pensiero corre al chirurgo che ogni giorno entra in sala operatoria e ha letteralmente nelle sue mani un cuore da riparare o al pilota di un aereo al quale è affidato i compito di trasvolare l’oceano per consentire a donne e uomini di cui non conosce né il volto né il nome di raggiungere un luogo lontano, all’insegnante a cui i genitori affidano con fiducia i propri figli, al sacerdote al quale vengono affidati i segreti più inconfessabili. Ma mille e mille altre figure pubbliche e private potremmo evocare e così ricordare a tutti noi che ciascuno è chiamato a esercitare la propria di responsabilità. E che in fondo la nostra stessa vita, fatta di mille scelte diverse, è un costante e talvolta doloroso esercizio della responsabilità. Basti pensare a quel papà e a quella mamma che sono chiamati a porre una firma di consenso, al posto del figlio minore, per un’operazione chirurgica in cui c’è il rischio di perdere la vita…
La responsabilità accompagna e punteggia la nostra condizione umana, anche con risvolti drammatici.
Ecco perché dobbiamo educarci alla responsabilità
e prevenire tutto il prevenibile. Solo così non accetteremo mai di rimuovere un ingranaggio salvavita dalla funivia, non ci faremo mai complici di chi sotterra nei campi coltivati i fanghi tossici, non staremo zitti e buoni quando vedremo rapire una bambina di 4 anni e non volgeremo lo sguardo dall’altra parte.
Dovremo riscoprire quel principio di precauzione che, senza paralizzarci, ci sappia guidare verso le scelte più giuste in ogni occasione in cui le vite degli altri possano dipendere dalle nostre azioni. E maturare la consapevolezza che dietro tante scelte si cela la possibilità di dare spazio alla vita intesa nella sua complessità (biologica, ecologica, generazionale e sociale). Magari associando all’etica della responsabilità illuminata da Max Weber, l’etica della solidarietà ispirata dal Cristianesimo. Dunque, quell’essere “per” e quell’essere “con” che affondano radici profonde nel personalismo di matrice cristiana e che ispirano anche la Costituzione italiana. Una solida inclinazione al bene che tanti lutti, tante tragedie, tanti tradimenti dell’umano e tante ferite dell’anima ci può evitare.