Era il 9 maggio 2021. Dalla Santa Sede, nel giorno della beatificazione della giudice Rosario Livatino, viene diffusa la notizia della creazione di un gruppo di studio sulla scomunica delle mafie. Tra i membri, vi è l’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi.
Eccellenza, qual è il suo impegno in questa commissione?
La mia partecipazione è iniziata nel 2017, quando è stato organizzato in Vaticano un incontro internazionale sul contrasto alla corruzione e alle mafie al quale ho partecipato. In seguito a questo incontro internazionale è stato stabilito di costituire una consulta che possa studiare il problema del contrasto alle mafie e anche alla corruzione, riflettendo su come educare la gente a contrastare questi fenomeni ed eventualmente quali pene ecclesiastiche comminare.
Come supporterete le Conferenze episcopali locali?
Stiamo facendo degli incontri – abbiamo già fatto due incontri – per approfondire il problema: anzitutto, vedere che cosa si intende per mafie. Si tratta di identificare quella struttura comune alle varie mafie presenti in Italia e in altri Paesi, per esempio, certi cartelli dell’America Latina che sono concentrati soprattutto sullo spaccio della droga, sul commercio della droga. Dopo aver identificato i fenomeni e trovato anche degli elementi comuni, si tratta di studiare dal punto di vista del diritto canonico come comminare una scomunica. Bisogna sapere qual è il delitto, la persona da scomunicare, la pena e l’autorità competente a comminarla ma anche ad assolverla.
Ma il vostro non è un gruppo di lavoro che punta alla condanna, bensì alla redenzione…
Sì, voglio ricordare che la scomunica non è una condanna all’inferno, è una pena medicinale che la Chiesa dà a chi ritiene di essere in pericolo per la propria salvezza, per fargli capire la gravità del peccato, che in questo caso diventa anche un reato. E, allora, in base a questo poi si potrà agire.
Ma ciò che interessa soprattutto alla Chiesa è invitare i mafiosi alla conversione.
Purtroppo non è facile. Perché, se il mafioso ha fatto un giuramento e si concepisce come una struttura antagonista della Chiesa sarà difficile. Però, sono possibili anche delle conversioni di singoli che sono vere conversioni, che esigono anche una giustizia riparativa. Dobbiamo, dunque, stare attenti che si tratta di una conversione seria. Non può essere solo detta a parole ma deve essere dimostrata anche con i fatti.
Dall’anatema di Giovanni Paolo II, nel ’93, ad Agrigento alla condanna delle mafie pronunciata nel 2014 da Papa Francesco a Sibari. Quale percorso è stato compiuto nelle Chiese locali?
Si è innestato un processo all’interno della Chiesa di riflessione che ha portato ad alcuni provvedimenti. Per esempio, nella mia diocesi i mafiosi condannati con sentenza passata in giudicato non possono fare da padrino, non possono far parte di confraternite. Per quanto riguarda i funerali, essendo i mafiosi peccatori manifesti, cioè pubblici peccatori, non possono avere un funerale pubblico. Ci può essere soltanto una preghiera privata al cimitero, come è successo per alcuni casi.
Questi provvedimenti, secondo lei, quanto hanno inciso anche a livello formativo nell’opinione pubblica?
Secondo me hanno inciso. Perché già il mafioso che prima pretendeva di fare da padrino o di far parte della Confraternita, ora capisce che non lo può fare.
Quale esito auspica che possa emergere dal lavoro del Gruppo di studio?
Mi auguro che ci possa essere la convinzione in tutti – cosa non scontata – che non esistono solo le mafie regionali, e che non si trovano solo nel meridione d’Italia, ma in tanti Paesi del mondo. Quindi, mi pare importante che ci sia un pronunciamento a livello di Chiesa universale, considerando la mafia come un peccato, da inserire nel codice di Diritto canonico, nel Catechismo della Chiesa cattolica e nella Dottrina sociale della Chiesa.