In questi numeretti, “2,1” e “1,24”, è racchiuso il dramma che attanaglia un’Italia spesso inconsapevole: il crollo demografico del nostro Paese. Se il tasso di sostituzione, cioè il numero di bambini per coppia necessari a stabilizzare la popolazione è 2,1, in Italia è di 1,24. Dunque, come piace dire ai demografi, il numero medio di figli per ogni donna italiana in età fertile è di 1,24. Nell’arco di una sola generazione – tra il 1964 e il 1995 – l’Italia è scesa da un tasso di fertilità del 2,65 a 1,19. E la pandemia sta facendo il resto del lavoro sporco. Al punto da far dire a Giancarlo Blangiardo, presidente dell’Istat, che “si sta spegnendo il motore della società”. E che è assolutamente opportuno riportare al centro del dibattito pubblico la situazione demografica del Paese.
È quanto certamente accadrà nel corso degli Stati generali della natalità promossi dal Forum delle associazioni familiari che si terranno a Roma il 14 maggio e che si apriranno con l’intervento inaugurale di papa Francesco. Un’occasione imperdibile per individuare le vie di fuga dall’inverno demografico che sembra condannare l’Italia a una desertificazione che mal si concilia con il desiderio di risalire la china, dopo i colpi durissimi inferti dalla pandemia sia al sistema produttivo sia alla relazionalità sociale. Con una rarefazione dei rapporti che non ha risparmiato alcun gruppo sociale e nessuna persona, giovane o anziana.
Dunque, nel momento in cui il Paese scalda i muscoli per fare la propria parte nel processo europeo di ripresa sociale ed economica, è giusto cogliere l’occasione per interrogarsi sugli ostacoli da rimuovere per favorire una solida ripresa della natalità.Ma crediamo non si tratti solo di gravi ritardi strutturali e legislativi (fiscali, economici e sociali) che pure vanno affrontati, magari utilizzando le ingenti risorse europee del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Moltissimo, infatti, dipenderà da una formidabile conversione culturale, capace non solo di mutare profondamente la narrazione sul tema della natalità, ma di attribuire valore pubblico positivo alla scelta di mettere al mondo un figlio, che da evento privato, anzi privatissimo, torni ad essere un fattore decisivo di coppia, famiglia, gruppo, comunità, società, popolo. Una catena di relazioni che dovrebbe riportare gli occhi di tutti, nessuno escluso, su quella bimba e sul quel bimbo che nascono. Con una sorta di assunzione di responsabilità collettiva di cui oggi non c’è traccia in molti ambiti della vita pubblica. Noi tutti, infatti, non dovremmo mai dimenticare lo splendido proverbio africano che recita così: per far crescere un bambino ci vuole un villaggio.
A questo riguardo c’è un’immagine della Bibbia che ci viene in soccorso per ritrovare e rinsaldare motivazioni profonde dietro la scelta di dare la vita:
“di generazione in generazione”.
Ecco, questo crediamo possa essere un contributo originale dei cattolici al processo di rigenerazione collettiva da attivare attraverso l’accelerazione della natalità. Non è in discussione un semplice omaggio al valore della memoria, che pure ha una grande importanza, e nemmeno un’esaltazione altisonante della storia che facilmente può scadere nelle basse ragioni del nazionalismo e dell’etnicismo. Si tratta, piuttosto, di un riconoscimento del posto di ciascuno nella Storia e della propria irrinunciabile e insostituibile responsabilità personale nel processo di generatività. Sì, quella generatività tante volte evocata come il più giusto degli approcci alla costruzione della modernità. Senza negare le proprie radici, ma attribuendo sempre più valore alla cooperazione e alla condivisione degli obiettivi.
Gli studiosi della generatività sociale ci ricordano che, etimologicamente, “generare è collegato a tutta una serie di termini quali generosità, genialità, genitore, genesi, gente, genuino, originale, ingegno”. Esattamente tutto ciò che serve a ogni generazione per lasciare il proprio segno nella Storia, da tramandare ai propri figli. E, appunto, di generazione in generazione.