Che meraviglia il racconto del sogno americano attraverso lo sguardo di una famiglia di migranti in “Minari”, firmato da Lee Isaac Chung, opera che potrebbe essere la rivelazione agli imminenti premi Oscar, domenica 25 aprile, accanto al giustamente favorito “Nomadland” di Chloé Zhao, di cui ci siamo occupati diffusamente.
Con il suo realismo poetico “Minari” conquista, e non poco, inserendosi con pregio nella galleria di affreschi della società americana, capace di accogliere (quando vuole) e regalare il sogno dell’integrazione. “Minari” è di una delicatezza disarmante, un film intessuto di fiducia; e proprio per questo “cammino della speranza” che il titolo si fa simbolo anche della ripartenza del cinema in sala in Italia dal 26 aprile, distribuito da Academy Two. Un film che suona pertanto come un buono auspicio per tutti, spettatori in testa. Accanto a “Minari”, nel punto streaming settimanale Cnvf-Sir, c’è anche la commedia “Locked Down” di Doug Liman – disponibile su Rakuten Tv, AppleTv+, Prime Video, TimVision ecc. –, racconto brillante-malinconico a pennellate romance del confinamento in casa di una coppia al tempo del Covid-19. Protagonisti Anne Hathaway e Chiwetel Ejiofor.
“Minari”
È un film che rimane addosso “Minari”, anzi che si spinge dentro sin nelle pieghe del cuore. L’opera del regista sudcoreano-statunitense Lee Isaac Chung conquista per la sua delicatezza e poesia nel tratteggiare il sogno di tanti migranti, che percorrono la terra a stelle e strisce con il desiderio di futuro, di una vita migliore per loro ma soprattutto per i figli, per la generazione a venire. “Minari” ha avuto accoglienze favorevoli ovunque, a cominciare dal Sundance Film Festival, passando poi per i Golden Globe, i Bafta e ora gli Academy Awards, i 93ˆ Oscar, dove l’opera corre per sei premi pesanti: è in lizza come miglior film, regia e sceneggiatura originale, tutto a firma di Lee Isaac Chung, come pure per le interpretazioni di Steven Yeun, nella categoria attore protagonista, e di Yuh-jung Youn, attrice non protagonista; c’è anche una nomination per la riuscita colonna sonora di Emile Mosseri.
Anzitutto la storia: siamo negli Stati Uniti negli anni ’80, nella zona rurale dell’Arkansas dove si trasferisce una famiglia di origini sudcoreane, acquistando un fazzoletto di terra nella regione dell’Ozark. Capofamiglia è Jacob (Steven Yeun), trentenne sposato con Monica (Yeri Han), genitori della preadolescente Anne (Noel Kate Cho) e del piccolo David (Alan Kim, incredibilmente espressivo), di appena sette anni. Jacob ha il sogno di mettere su una coltivazione di vegetali tipici dell’Asia, per poterli vendere e condividere con la nutrita comunità di migranti ormai stanziali in America. Facendosi aiutare dal veterano Paul (Will Patton), un agricoltore ultrareligioso dai modi pacati e accoglienti, Jacob si dedica anima e corpo al suo progetto, ma il terreno non sembra rispondere ai suoi sforzi; l’acqua poi non arriva, non basta mai. Nonostante questo Jacob non si arrende, neanche davanti ai tentennamenti della moglie Monica, spaventata dal rischio della bancarotta e imbarazzata dall’abitare in una casa con le ruote a bordo dei campi. A smorzare la tensione sono in primis i due bambini, soprattutto David, con il suo incedere sognante e dolcemente ribelle; e poi la nonna Soonja (Yuh-jung Youn), la madre di Monica, che arriva dalla Corea con una carica di simpatica eccentricità portando scompiglio in casa ma anche tanta energia. E proprio a lei si deve l’intuizione di piantare i semi di Minari, un’erba piccante tipica della cucina asiatica che raggiunge una fioritura più rigogliosa alla seconda stagione di crescita.
Alla sua quarta regia, Lee Isaac Chung con “Minari” firma il film della svolta. L’autore fa centro con una storia che fonde ricordi personali, quelli della sua famiglia, con la memoria comune di un Paese, con la grande Storia americana, quella che vibra sulle note dell’accoglienza, di cui parla il celebre brano “This land is your land”. “Minari” ci consegna il racconto di un sogno, di un sogno possibile, quello di una famiglia simbolo in verità della grande e variegata comunità di migranti che fanno rotta verso l’America, attratti dalle promesse di un luogo dove tutto sembra essere possibile, dove chiunque può trovare posto e domani.
“Minari” è una suggestione poetica sul bisogno di integrazione sociale, di accoglienza, ma anche di custodia delle proprie radici identitarie: Jacob e la sua famiglia vogliono essere americani, ma senza rinnegare se stessi, il proprio passato.
Lo stile narrativo di Lee Isaac Chung ammalia e conquista per nitidezza, pulizia visiva e grande realismo, che si muove però non sul binario dell’esasperazione bensì sulle note piene della speranza. E così la famiglia di Jacob per certi versi finisce per rievocare l’immagine di quei vecchi coloni alla conquista della frontiera americana, quelli che di fatto hanno edificato e reso grande il Paese a stelle e strisce, uomini e donne che per primi hanno dato il via al sogno.
“Minari” è una bellissima e struggente metafora sociale per il nostro tempo un po’ incerto, un film che predispone all’ascolto e all’incontro; dal punto di vista pastorale è da valutare come raccomandabile, poetico e adatto per dibattiti.
“Locked Down”
Il regista di “Mr. And Mrs. Smith” (2005) Doug Liman ha realizzato un film, “Locked Down”, in piena pandemia in Inghilterra, raccontando in chiave tragicomica le nevrosi di una coppia pronta a scoppiare. La storia: nel cuore di Londra, in una tipica casa inglese a schiera, vivono Linda e Paxton; il loro amore è nato anni negli anni verdi sulle due ruote, sull’onda di una giovinezza vibrante e a tratti spericolata. Alla soglia dei quaranta Lina e Paxton sono diventati una coppia dalla vita più sedentaria, segnata da ritmi di lavoro totalizzanti e da ingombranti silenzi, rassegnazioni. Reclusi in casa, mentre fuori soffia la pandemia, i due vivono un momento da “Scene da un matrimonio” alla Bergman, un dialogo ora delirante ora franco sul perché si siano persi negli anni. La narrazione poi innesta anche una stramba linea action alla “Ocean’s Eleven” (anzi, forse più alla “Ocean’s 8”), ma su questo punto non entriamo…
L’aspetto infatti più interessante del film, quello che marca la sua originalità, rimane quello di proporsi come un’istantanea della vita di ciascuno di noi al tempo dell’isolamento da Covid-19, soprattutto nei difficili giorni di “rosso”. Come tutti, Linda e Paxton sono spaventati dall’uscire di casa, dal non trovare mascherine da comprare – Paxton si avventura fuori con la bandana legata sul volto –, e affrontano la coda al supermercato tra remissività e lampi ilarità, strabuzzando gli occhi davanti all’assalto al reparto carta igienica; e ancora “invettive” ironiche sul bisogno collettivo di panificare. In tutto questo ci sono poi le urla, i silenzi, la ricerca di tenerezza e sì, dopo tutto, il bisogno di ritrovarsi, di guardarsi dentro e provare a risintonizzarsi.
I protagonisti Anne Hathaway e Chiwetel Ejiofor affrontano il copione con generosità e convinzione, un copione a ben vedere non proprio perfetto, a tratti confuso e sovraccarico. “Locked Down” è comunque un racconto teso a inquadrare i nostri giorni tempestosi con la cifra dell’ironia, segnata da raccordi romantico-malinconici; un “Marriage Story” in piena pandemia che trova senso soprattutto nel duetto domestico. Nel complesso “Locked Down” è un film godibile, senza troppe pretese, che dal punto di vista pastorale è da valutare come consigliabile, semplice. Adatto per un pubblico adulto per i temi in campo.