Un silenzio particolare torna a riavvolgere le città perché là dove c’è la zona rossa, tante attività restano chiuse, ma soprattutto perché tutti quelli che hanno meno di 18 anni e frequentano ancora la scuola, hanno riacceso il pc, dalla loro camera da letto, soggiorno, sottotetto, balcone, sgomitando per accaparrarsi giga e spazio con fratelli e sorelle e riuscire a seguire le lezioni in didattica a distanza. La chiusura delle scuole dovrebbe servire a ridurre la corsa del virus. Che effettivamente ci sia una equazione tra scuole aperte e aumento della curva non è però un dato sostenuto dalla comunità scientifica, come mostra Sara Gandini, epidemiologa e biostatistica, nonché docente di statistica medica alla Statale di Milano: in questi ultimi mesi ha lavorato con un team di esperti a un ampio studio di prossima pubblicazione, che ha seguito l’andamento dei contagi nella seconda ondata, da settembre a dicembre 2020, riguardo 7 milioni di studenti e 700 mila docenti (il 97% delle scuole, poi ridottosi nel tempo con la chiusura delle scuole).
Che cosa emerge dal vostro studio?
L’incidenza tra gli studenti delle scuole elementari e medie di positività al tampone è stata del 39% inferiore alla media della popolazione; per gli studenti delle superiori del 9% in meno; nei docenti invece è risultata simile o maggiore rispetto alla popolazione generale, a seconda delle fasce d’età considerate. Ciò significa che a fine novembre la percentuale di nuovi casi positivi nelle scuole italiane era sotto l’1% di positività tra gli studenti e tra l’1 e il 2% per gli insegnanti e personale non docente. La frequenza di cluster nelle scuole è stata del 5-7% tra tutte le scuole italiane. E quel che è emerso è che la chiusura o l’apertura delle scuole non ha modificato l’Rt, che si muove per conto suo.
Perché le differenze tra insegnanti e studenti?
La ragione della diversità sta nel fatto che i giovani si infettano meno degli adulti; tra gli insegnanti troviamo più positivi in ragione dell’elevato numero di test, ma soprattutto quando il caso indice è un insegnante. Significa che il contagio avviene prevalentemente da insegnante a insegnante e non da ragazzo a insegnante. E questi dati sono confermati anche da altri studi, non italiani.
Quindi a chi è dovuto l’innalzamento della curva dei contagi?
Indagando i dati di settembre e ottobre per età, vediamo che le classi principali a cui è dovuto l’innalzamento sono gli adulti tra i 20 e 59 anni. Quindi non è dovuto ai bambini. Gli stessi risultati sono stati riscontrati anche negli Stati Uniti.
Ma le cose sono cambiate e sono arrivate le varianti. Cambiano anche i vostri dati?
Uno studio del Public Health England ha mostrato che la variante inglese si trasmette in modo simile in tutte le fasce d’età e che i bambini, specialmente di età inferiore ai 10 anni, hanno circa la metà delle probabilità degli adulti di risultare positivi anche con la variante inglese. E la prognosi non è peggiore per i bambini trovati positivi per la variante inglese. Infatti a gennaio si confermano le stesse percentuali di positività dei mesi precedenti, cioè sempre sotto l’1%. Così pure i cluster, a febbraio, individuati per tracciamento in seguito ad un caso positivo nelle scuole italiane, restano sotto l’1%. A spaventare tutti quanti è stato un innalzamento lieve dei contagi a fine febbraio nella fascia 10-19 anni. Ma, per esempio in Emilia Romagna, in quel periodo sono raddoppiati i tamponi e sono stati molti screening nelle scuole. Quindi i dati per età e con il passato non sono confrontabili.
Che succede negli altri Paesi?
Uno studio del Centro europeo per il controllo delle malattie, sulla base dei dati di 28 Paesi riguardo alle scuole, fa emergere che il ritorno nelle aule non appare essere stato un motore di contagio nella seconda ondata; che gli insegnanti non sono a più alto rischio di infezione rispetto ad altre professioni; che se un bambino è risultato positivo, è molto probabile che il contagio sia avvenuto a casa. E infine dice, in sintonia anche con quanto l’Oms sta iniziando a dire, che l’impatto sulla salute fisica, mentale e sull’istruzione della chiusura delle scuole sui bambini, nonché l’impatto economico sulla società, fa sì che
il bilancio rischi e benefici sia a favore dell’apertura.
Quali sono invece i rischi delle chiusure?
Stanno venendo fuori ormai diversi studi. Uno studio cinese sui disturbi mentali su 1241 bambini e adolescenti prima della pandemia e 2 settimane dopo la riapertura delle scuole in Cina ha mostrato un aumento consistente dei sintomi depressivi, lesioni personali, pensieri suicidi ma anche tentativi di suicidio. Lo stesso è emerso in uno studio britannico pubblicato a dicembre 2020 (Archives of diseases in childhood), o in uno francese sul disagio psicologico negli universitari. Recentemente uno studio Giapponese ha mostrato un aumento significativo dei suicidi nei giovani e nelle donne con la seconda ondata. L’Olanda ha studiato l’apprendimento in 350 mila studenti ed è emerso che il livello di apprendimento si riduce del 20% quando si sta in Dad; e la percentuale cresce al 50% nelle famiglie con genitori non laureati.
Quindi aprire o chiudere?
Il rischio zero non esiste in nessun luogo; nessun luogo del mondo potrà essere sicuro in assoluto, durante una pandemia globale, ma la scuola è uno dei luoghi più sicuri per i giovani perché ci sono protocolli da seguire. Il principio generale che bisognerebbe seguire è quello del minor rischio possibile facendo un bilancio tra rischi e benefici di ogni scelta. In assenza di prove evidenti dei vantaggi della chiusura delle scuole, il principio di precauzione sarebbe quello di mantenere le scuole aperte per prevenire danni catastrofici ai bambini.