Nel dibattito politico si riaffaccia il tema delle riforme istituzionali e i motivi si possono ricondurre soprattutto a tre filoni. Come ha ricordato lo stesso premier Draghi nel suo discorso programmatico, quello da lui presieduto è il terzo governo della legislatura iniziata nel marzo 2018. E’ l’ennesima conferma di un problema di stabilità dell’esecutivo che con alterne vicende (finché esistevano partiti forti e strutturati il sistema aveva una sua continuità di fondo) accompagna sin dagli inizi la vita della Repubblica. Un secondo filone è incentrato sulla necessità di introdurre, come promesso dai sostenitori della riforma confermata con referendum, alcuni correttivi per riequilibrare il sistema dopo il taglio drastico dei parlamentari, che diventerà operativo con la prossima legislatura (dal 2023, se non ci saranno scioglimenti anticipati). Il terzo spunto chiama in causa la straordinaria opportunità offerta da una fase politica in cui il governo è sostenuto da un arco di forze che rappresenta quasi tutto il Parlamento. E’ pur vero che ogni partito interpreta questa potenziale tregua a modo suo (c’è chi sta dentro e allo stesso tempo spara quotidiane bordate all’esterno), ma c’è da domandarsi quando si potrà mai ricreare un contesto così favorevole per riforme che dovrebbero essere il più possibile condivise.
Per quanto riguarda il primo ambito, il primo passaggio è chiarire se la stabilità dei governi debba essere assicurata esclusivamente o prioritariamente attraverso la legge elettorale, oppure se non sia più efficace intervenire con strumenti istituzionali in senso stretto, per esempio ricorrendo al meccanismo della “sfiducia costruttiva” (per sfiduciare un governo occorre che ce ne sia un altro pronto), ben sperimentato negli ordinamenti di altri Stati europei. Il terreno della riforma elettorale è, nella pratica, il più scivoloso proprio perché è il più abbordabile, in quanto non è richiesta la lunga e complessa procedura di revisione costituzionale. E lo è soprattutto perché il dibattito è viziato dalla tentazione di ogni partito di valutare le possibili soluzioni soltanto in base al proprio ipotizzato tornaconto elettorale. Solo ipotizzato, dato che l’esperienza ci mostra che in questo campo l’eterogenesi dei fini ha prodotto esiti paradossali. Comunque lo snodo principale attiene all’obiettivo che si assegna alla legge elettorale: rappresentare il pluralismo delle opzioni politiche o determinare una maggioranza di governo? Naturalmente i due criteri possono essere variamente miscelati e forse bisognerebbe aggiungere un terzo obiettivo: promuovere la selezione di personale politico all’altezza per competenza e probità.
Parlare di legge elettorale significa entrare già nel campo dei correttivi da apportare in seguito al taglio dei parlamentari. La riduzione di deputati e senatori, infatti, determina di per sé un effetto maggioritario e pone la questione della rappresentanza dei territori, alcuni dei quali vengono penalizzati o diluiti all’interno di circoscrizioni di estensione smisurata. In questa chiave è da leggere anche la proposta di riforma costituzionale che supera il vincolo della base regionale per l’elezione dei senatori, in modo che sia possibile un’articolazione delle circoscrizioni che tuteli la rappresentanza delle minoranze nelle regioni più piccole. L’altra riforma specifica, anche questa però del tutto in alto mare, è quella che riduce il numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica: il loro peso relativo, infatti, risulterebbe molto rafforzato a fronte di un minor numero di deputati e senatori. Una terza riforma costituzionale, che ha già avuto una prima approvazione parlamentare prima di arenarsi, è quella che introduce il voto dei diciottenni anche per il Senato. Attualmente il corpo elettorale è diverso per i due rami del Parlamento e questo facilita in partenza la formazione di maggioranze diverse. Peraltro è soprattutto sul piano dei regolamenti parlamentari che sarebbe indispensabile intervenire nella prospettiva di Camere a ranghi ridotti. Operazione bipartisan molto più delicata e rilevante di quanto possa apparire dall’esterno del Palazzo. Anche in questo caso una tregua tra i partiti potrebbe agevolare il percorso. Purché sia una vera tregua da utilizzare in modo utile per il Paese e non un alibi per continuare a fare campagna elettorale mentre il governo fronteggia l’emergenza sanitaria ed economico-sociale.
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Nel dibattito politico si riaffaccia il tema delle riforme istituzionali e i motivi si possono ricondurre soprattutto a tre filoni. Come ha ricordato lo stesso premier Draghi nel suo discorso programmatico, quello da lui presieduto è il terzo governo della legislatura iniziata nel marzo 2018. E' l'ennesima conferma di un problema di stabilità dell'esecutivo che con alterne vicende (finché esistevano partiti forti e strutturati il sistema aveva una sua continuità di fondo) accompagna sin dagli inizi la vita della Repubblica. Un secondo filone è incentrato sulla necessità di introdurre, come promesso dai sostenitori della riforma confermata con referendum, alcuni correttivi per riequilibrare il sistema dopo il taglio drastico dei parlamentari, che diventerà operativo con la prossima legislatura (dal 2023, se non ci saranno scioglimenti anticipati). Il terzo spunto chiama in causa la straordinaria opportunità offerta da una fase politica in cui il governo è sostenuto da un arco di forze che rappresenta quasi tutto il Parlamento.