Morire a dieci anni partecipando a un’assurda challange su TikTok in cui doveva mostrarsi in video mentre “per gioco” doveva vincere la sfida di restare senza respiro più tempo possibile con una cintura stretta al collo. È successo a Palermo, nei giorni scorsi. Mentre proseguono le indagini, resta lo sgomento per questa morte: di chi è la colpa? Ne parliamo con don Alberto Ravagnani, giovane sacerdote di Busto Arsizio diventato in pochi mesi un fenomeno mediatico con i suoi video su YouTube.
Don Alberto, tragedie come quella di Palermo fanno crescere la preoccupazione verso i social…
Un profilo social è come una chiave che apre il mondo molto vario dei social network. Se hai un account hai una chiave che ti butta dentro un mondo dove c’è di tutto: contenuti di bambini, contenuti di valore, informazione, ma anche contenuti negativi, pornografia, fake news, challenge pericolose. Avere la chiave in sé non è un problema, il punto è se io genitore reputo te figlio così responsabile da avere in mano la chiave per un mondo così vasto, pieno di tante possibilità dove tu stai andando da solo.
La prima educazione da fare è quella ai genitori?
Sì, mi rendo conto che la generazione degli adulti oggi è digiuna di social, si sente estranea a questo mondo. A volte, sono i genitori i primi a non sapere cosa c’è in quei mondi, quindi serve una maggiore vigilanza, devono sentirsi coinvolti, informarsi, capire, conoscere. Se porto mio figlio piccolo in un posto che io stesso non conosco, devo essere consapevole di questo oppure devo fare la fatica di andare con lui e dire questo è positivo o negativo e nel secondo caso dirgli di fermarsi. C’è bisogno che i genitori siano presenti nella vita dei figli in modo tale da educarli, aiutarli a crescere e nel caso sbaglino essere pronti anche a proteggerli e aiutarli a rialzarsi.
Insomma, come nella vita reale…
Esatto. Un genitore si premura di accompagnare e custodire il figlio in ogni esperienza che fa: a scuola, nello sport, nelle uscite con gli amici, nelle feste di compleanno. A quell’età un genitore è onnipresente perché un bambino non è capace di fare discernimento rispetto alle situazioni che deve vivere, difficilmente riesce a capire i pericoli o a misurarsi con delle situazioni di particolare stress emotivo; è un bambino, non ha nemmeno la libertà per farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni. Quindi, fintanto che un bambino non diventa capace e responsabile,
un genitore deve custodirlo e accompagnarlo nelle attività in presenza e anche nella vita virtuale.
Proprio perché i social network sono luoghi in cui la propria vita viene data in grandissima esposizione agli occhi degli altri, forse sono più rischiosi. Un bambino deve prima crescere e sviluppare le proprie capacità relazionali, emotive, intellettuali per poi vivere questa grande esposizione mediatica sui social network. Come non possiamo dare in mano a un bambino una pistola, una carta di credito, non possiamo dare neanche un account dei social. Di fatto, diventa un grande potere avere un account su un social network perché vuol dire avere un’identità. Ma un bambino non ha un’identità personale così formata da poter reggere di fronte agli altri. Un bambino si appoggia sempre alla mamma o al papà. Un profilo su un social network, invece, ti mostra come una persona a tutto tondo, capace di rispondere, rendere conto delle proprie azioni e interagire.
TikTok e gli altri social hanno le loro colpe?
Accanto alla questione educativa, è anche un problema di TikTok e dei social network perché in questi posti virtuali c’è anche la possibilità di venire a contatto con esperienze negative, così come succede nella vita reale: se vado al parchetto di fronte all’oratorio anche lì spacciano e ci sono, di conseguenza, dei rischi e questo è un problema. Che facciamo? Cerco di cambiare la situazione al parchetto oppure se ho un figlio tento di dargli i giusti valori insegnandogli che ci sono opportunità e rischi? Prima di cambiare la realtà fuori di noi, dobbiamo cambiare noi stessi, essere accorti rispetto a quello che incrociamo, vagliando tutto quanto e trattenendo quello che è buono. Ribadisco:
non bisognerebbe neanche dare un account su un social network a un bambino.
Ma dobbiamo anche considerare che i social sono entrati a far parte della nostra realtà, dobbiamo capire che i social sono reali, non sono “virtuali”. Se i social network fossero separati dalla vita reale, se fossero solo cose astratte, non sarebbe morta una bambina a Palermo. Quindi, innanzitutto, noi adulti, i genitori, le istituzioni e anche la Chiesa dobbiamo ricordarci che i social sono reali, hanno rischi reali e opportunità reali. Pertanto, vanno trattati come reali, prendendoli sul serio, prendendo le opportunità e difendendoci dai rischi, contenendo le problematicità.
Come si possono arginare i rischi presenti sui social?
Servono forme di controllo, però sono le piattaforme che devono fornirle oppure la community. I social network sono la versione virtuale della realtà con tante cose belle e brutte. Le cose brutte nel momento in cui vengono scoperte vengono fatte saltare ma tante volte non vengono notate a meno che qualcuno non le segnali. Perciò, la community deve essere sensibilizzata perché gli utenti possono segnalare gli aspetti problematici. Occorre proprio un’educazione al digitale rendendoci conto che i commenti che lascio o non lascio hanno un peso, le segnalazioni che faccio o non faccio hanno delle conseguenze. Mi devo sentire anch’io responsabile di quello che vedo sui social e a cui partecipo. Per esempio, non ho mai incrociato questa sfida su TikTok, ma se fosse successo avrei dovuto segnalarla come pericolosa a TikTok. I social network ruotano intorno alle relazioni virtuali che creano community, che dovrebbero maturare anche una responsabilità comune, come capita nella società reale: se nel mio comune so che c’è una strada rotta o so che c’è qualcuno che sversa rifiuti tossici devo segnalarlo alle autorità competenti per evitare che queste problematicità si ripercuotano sul bene comune. Può, anzi dovrebbe avvenire lo stesso sui social.