Domenica 24 gennaio si celebra la Giornata internazionale dell’educazione, proclamata dalle Nazioni Unite e voluta in particolare dall’Unesco per sensibilizzare i governi e i popoli riguardo al tema dell’accesso all’istruzione per i bambini, come strumento per uscire dalla povertà. La prima edizione si è svolta nel 2019. Della povertà educativa in Italia, aggravata dall’emergenza sanitaria in corso, parliamo con il vice presidente dell’impresa sociale “Con i Bambini”, Marco Rossi-Doria.
Sul fronte educativo l’Italia come si colloca tra i Paesi Ocse?
Il nostro Paese da molti decenni include nell’ordinarietà del proprio sistema di istruzione bambini con bisogni educativi speciali e con fragilità e investe tanti soldi, quasi 4 miliardi di euro l’anno. È una cosa encomiabile che ci fa guardare con rispetto anche all’estero.
La scuola, nei quartieri difficili di ogni periferia d’Italia, da Nord a Sud, fa da presidio
e quello che può per supplire a grandi mancanze generali sul fronte dello sviluppo, della lotta alle disuguaglianze, della disoccupazione, dei problemi di assetto urbano, dell’assenza di servizi, quali biblioteche, centri sportivi, cinema, teatri. Certo, da sola la scuola non può risolvere tutto, ma dentro un’alleanza territorio per territorio può promuovere il senso dell’apprendere e del far parte di una comune cultura.
Tutti sono concordi, però, nel dire che la scuola era in crisi già prima del Covid…
Negli ultimi anni l’Italia è stata l’unico grande Paese che ha scelto di tagliare l’investimento in scuola e in educazione.
Abbiamo operato dei tagli lineari per circa 7 miliardi e mezzo di euro nel 2006, confermati negli anni successivi, cioè il taglio è diventato strutturale, malgrado qualche investimento con la cosiddetta legge della Buona scuola, pensato per immettere in ruolo i docenti precari ma non per le strutture o per il funzionamento ordinario delle scuole. Insomma, abbiamo preso una strada sbagliata, in contraddizione con tutta la nostra storia, durante la quale, fino al 2006, è sempre cresciuta la parte del Pil dedicata all’istruzione.
C’è poi il problema della dispersione scolastica.
Mi piace di più parlare di fallimento formativo perché sono esseri umani all’inizio della vita che non riusciamo a formare: non li abbiamo “persi”, sono vivi e vegeti ma noi non sappiamo portarli dentro un sistema di istruzione e formazione. Già prima della pandemia si è interrotto il trend che vedeva diminuire l’abbandono scolastico vero e proprio, cioè la percentuale di ragazzi che a 24 anni, 8 anni dopo l’obbligo, non avevano in tasca né un diploma di scuola superiore né una qualifica almeno triennale di formazione professionale spendibile sul mercato legale del lavoro. Sono quelli che a livello europeo si definiscono “early school leaver”, cioè che abbandonano la formazione prima del tempo. Questi ragazzi iniziano a essere molto precocemente nelle loro vite degli “scarti” perché non solo non hanno un titolo di studio, ma hanno difficoltà anche nella comprensione di un testo semplice o nei calcoli, non utilizzano le loro potenzialità, faticano a essere cittadini, facilmente sono esclusi anche dall’informazione, non sanno discernere tra notizie vere e false, fanno fatica a mettersi in collegamento con gli uffici che promuovono attività che potrebbero essere utili. Ma c’è di più.
Ci spieghi…
Questa situazione va letta non in maniera neutra rispetto alle condizioni concrete di vita delle persone. L’indice della povertà educativa ci mostra che laddove i ragazzi non vanno a scuola vengono da famiglie povere e vivono in quartieri senza altre opportunità di apprendimento. Sono ragazzi che nella vita quotidiana hanno molti meno diritti concretamente fruibili.
C’è una coincidenza tra le zone più povere dell’Italia e quelle di mancata istruzione e di mancato accesso a opportunità di crescita culturale.
Questo è terribile e va contro il comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione.
E poi è arrivato il Covid…
Quando siamo entrati in pandemia avevamo un milione e 200mila ragazzi che crescevano in famiglie sotto la soglia di povertà assoluta e oltre due milioni di bambini in povertà relativa. In più avevamo i dati peggiori sul digital device. Con la pandemia c’è un aggravamento delle povertà nelle periferie di tutta Italia, ma con una forte accentuazione nel Sud dove già erano concentrate le povertà assoluta e relativa e quella educativa per la mancanza di opportunità. La comunità nazionale, però, ha messo molto tempo, da marzo a metà giugno, a capire che si doveva calcolare oltre alla crisi sanitaria e sociale anche una crisi educativa. Eppure, lo stare chiusi in casa porta delle conseguenze molto gravi per la prima infanzia, ma anche per la adolescenza. Adesso finalmente si dibatte di questo, ma in maniera molto povera perché pare che la questione sia solo sui turni e non si ragiona in termini di cosa è successo a questa generazione rispetto alle precedenti; bisogna scomodare i bisnonni per fare qualche paragone accettabile. Non si dice che i ragazzi si sono comportati molto bene durante la pandemia, che sono stati molto responsabili.
Qual è la strada per uscire da questa situazione complessa?
Innanzitutto,
farne una grande questione nazionale.
Infatti, vengono a mancare le precondizioni per lo sviluppo se in un Paese che già fa pochi figli un terzo di bambini sta in una condizione di minorità o ci sta per cadere. Insomma, verrebbero a mancare le risorse umane indispensabili a qualunque tipo di sviluppo economico e sociale, oltre a esserci un problema di diritti negati e di gravi e accentuate disuguaglianze sociali e territoriali. Dovrebbe essere una priorità assoluta del Paese per il nostro comune interesse, oltre agli appelli di Papa Francesco contro la cultura dello scarto e al rispetto della nostra Costituzione. Per questo, il Recovery fund dovrebbe essere utilizzato in particolare per le nuove generazioni, in modo da riportare il rapporto tra Pil e investimenti in istruzione nella media europea. Questo significa che ci vuole un investimento in istruzione e cultura di 15/20 miliardi in più all’anno, a partire dalle zone più povere del Paese. Sono scelte politiche, ma che si devono tradurre concretamente. Un investimento funziona meglio se territorio per territorio si mettono d’accordo il Comune, che è l’istituzione più prossima ai cittadini, le scuole, le famiglie e il Terzo settore, come facciamo noi di “Con i Bambini” con i nostri quasi 4mila progetti con i quali raggiungiamo 500mila bambini e ragazzi in povertà e lavoriamo con migliaia di scuole e 6mila organizzazioni. Durante la pandemia, anche nelle settimane più difficili del lockdown, dove i nostri progetti erano già in campo, abbiamo raggiunto molti più bambini e ragazzi rispetto a luoghi dove non c’erano iniziative non solo nostre, ma anche di Comuni e altri enti.
In questo momento si discute molto sulla didattica a distanza…
Nel momento del lockdown la Dad è stata indispensabile e ha funzionato grazie ad un’alleanza tra donne: le insegnanti – il 90% dei docenti italiani – e le mamme.
La Dad non è stata la soluzione ma il salvagente:
in alcuni casi usato molto bene, in altri meno; c’è stata una Dad di serie A, con metodologie intelligenti, e una di serie B, con modalità lineari e spicce non sufficienti. In alcuni quartieri poveri la Dad è stata assicurata dall’intervento del Terzo settore che ha affiancato la scuola per consentire di raggiungere chi altrimenti non sarebbe stato raggiungibile. Quindi è stata uno strumento importante, ma è povera e insufficiente; la scuola in presenza è fondamentale. Certo, bisogna farla in sicurezza, cosa che forse non è possibile se ci limitiamo alle sole aule scolastiche: bisognerebbe pensare a forme più articolate e flessibili. Per esempio, ci sono progetti in cui piccoli gruppi frequentano la scuola, ma gli altri ragazzi non stanno chiusi ciascuno a casa sua, in isolamento: a loro volta sono messi insieme in piccoli gruppi in assoluta sicurezza, con degli educatori, fuori dalla scuola. Si creano legami circolari tra Dad e presenza: c’è una fatica organizzativa maggiore però si raggiungono tutti. Adesso siamo in una specie di guado: dobbiamo capire se ne usciamo puntando su modelli più solidali, misti e creativi, evitando la discussione polarizzata su presenza o non presenza a scuola. L’importante è evitare quella cultura dello scarto, di cui ci parla il Papa, che è ancora più grave agli inizi della vita.