Raccontare il genio a 250 anni dalla nascita. Con le umane parole, senza psicologismi, ma neanche senza concessioni al sentimentalismo, e soprattutto al sensazionalismo a tutti i costi, come va tanto oggi. Ci è riuscito Saverio Simonelli, vicecaporedattore di Tg 2000, oltre che responsabile dei programmi culturali di Tv2000 con “Cercando Beethoven” (Fazi Editore, 320 pagine, 18 euro), che tutto è fuorché una biografia del grande compositore di cui ricorrono i 250 anni dalla nascita. Se il maestro di Bonn è una presenza ostensiva in tutto il racconto, non ne è il solo attore: la scena è occupata anche da altri personaggi, il giovane pianista che insegue – apparentemente come uno dei tanti banali fan di oggi – Beethoven ovunque ne intraveda tracce, il violinista che subisce l’ossessione della perfezione e delle iniziazioni dei sedicenti Illuminati, e una ragazza, in qualche modo contesa dai due, senza mai che essi lo facciano davvero.
Ed è quest’ultima la chiave di volta dell’intero universo del romanzo, perché la sua semplicità, la sua adesione al qui e all’ora, unite alla sua capacità di percezione, rappresentano il filo rosso che unisce i comuni mortali e il grande misantropo, almeno in apparenza, vista la sua ritrosia ai complimenti e alle divinizzazioni ante mortem. La grazia della fanciulla riesce ad aprire porte, non solo materiali, che sembrerebbero ermeticamente chiuse: la chiusura del pensiero unicamente teorico del giovane Wilhelm, le inquiete domande del violinista Andreas, che tenta la perfezione attraverso la magia e il mistero, e il genio assoluto che non ha bisogno di parole, perché è la sua arte, – un ritorno “al paradiso terrestre prima della caduta”, secondo il giudizio di Andreas -, che parla per lui.
Simonelli, che, da buon germanista, sa che il primo romanticismo tedesco era tutto fuorché sentimentalismo, ma anzi, corteggiamento del senso finale delle cose (e nel racconto fa capolino uno dei grandi scrittori di quella stagione, Novalis), riesce ad arrivare al nucleo rovente del discorso: che cosa è il genio? Perché quella sconcertante alternanza di cantabilità popolare e di audaci sperimentazioni musicali riesce a giungere là dove anni e anni di studi assoluti di altri non sono riusciti ad arrivare? Perché Mozart e non Salieri, che ritorna anche nella vita di Beethoven? E d’altronde, già Thomas Bernhard se lo era chiesto nel romanzo “Il soccombente”, perché Glenn Gould e non gli altri allievi di Horowitz a Salisburgo? Solo Queenie, la fanciulla di ascendenti irlandesi per via paterna, riesce a penetrare – a modo suo genialmente – nell’enigma del grande maestro e permettere la sua parziale decifrazione ai cercatori di senso, catturati dalla sua bellezza ma anche dalla sua capacità di vivere l’arte nel quotidiano.E allora, anche noi colpiti dalla sua capacità di narrare, quasi con noncuranza, il divino mistero del genio, chiediamo all’autore perché mai, per il suo novel d’esordio, abbia scelto il maestro tedesco. Solo un fatto di ricorrenze? “E’ innegabile che la ricorrenza sia una grande occasione per la proposta del romanzo nel mercato editoriale. In realtà l’idea di inventare una storia attorno ad eventi delle vite di grandi musicisti mi frullava in testa da diverso tempo”.
E però leggendo il romanzo si ha l’impressione che l’autore Simonelli ne capisca di musica, oltre che di storia dell’Ottocento. “Ho studiato musica per una decina d’anni, chitarra classica per l’esattezza, anche armonia anche se non ho completato il ‘cursus’ del conservatorio. La documentazione storica ha riguardato invece il contesto, l’ambiente viennese così vitale, luminoso, una culla per la musica e i musicisti che l’hanno animato per decenni. Ovviamente poi mi sono riletto le prime biografie che raccontavano Beethoven quasi in presa diretta”.
Qualcuno è convinto che Beethoven abbia anticipato e influenzato anche i nostri tempi in fatto di musica. “Più che anticipare direi che Beethoven col suo impatto innovativo e personalissimo ha fatto sì che dopo di lui ogni musicista si sentisse per così dire obbligato a ‘dire’ qualcosa in prima persona, qualcosa di nuovo. Talmente forte era l’impressione di ‘inaudito’ che suscitava la musica del genio di Bonn anche se usava una grammatica musicale assolutamente uguale a quella che l’aveva formato. Penso alle ultime cinque sonate per pianoforte e ai quartetti, la Missa Solemnis e, ovviamente, la Nona. Quelle sono davvero un unicum impossibile da collocare sul piano di un’evoluzione storica”.
Qual è l’aspetto che rimane di più di Beethoven nel tuo immaginario? “Per me la sua straordinaria umanità che affiora in modo tanto più sorprendente in un carattere difficile da inquadrare, quello di un uomo burbero, irascibile, ma a tratti dolce ed empatico, una creatura bisognosa d’affetto, che nella sua musica, decisamente plurale dice sempre un ‘noi’, e che elemosina compagnia. Anche i motivi e i temi delle sue opere non sono mai pensati per se stessi ma sempre in rapporto a una forma complessiva, non individualistica. La musica fisica, intima e vibrante di un uomo che con la sua arte ha sublimato e vinto il dolore”.