Il Parlamento ha approvato le mozioni di maggioranza che autorizzano il Sì del Governo alla riforma del Mes, il Fondo salva Stati. Il passaggio era particolarmente rischioso soprattutto al Senato, dove i numeri della maggioranza sono sul filo. Ma alla fine i dissensi nel Movimento 5 Stelle, storicamente contrario al Mes in ogni sua forma, si sono ridotti a pochi casi e non è stato necessario neanche il soccorso diretto di parlamentari dissidenti dell’opposizione, anche se alcuni esponenti di Forza Italia e dell’area “europeista” del centro-destra si sono sfilati dalla posizione di rifiuto pregiudiziale sostenuta da Lega e Fratelli d’Italia, stavolta con l’avallo di Berlusconi che non se l’è sentita di rompere con Salvini e la Meloni anche a costo di suscitare più di un’incomprensione a livello europeo.
Perché in effetti
la posta in gioco del voto era proprio il rapporto con la Ue.
L’Italia aveva già bloccato per un anno la riforma e aveva anche ottenuto delle modifiche di merito a proposito del ruolo del Mes nella tenuta del sistema bancario. Al punto in cui si era arrivati, un No avrebbe portato il nostro Paese in rotta di collisione con l’Europa proprio nelle fasi cruciali del Recovery Plan: un autentico suicidio politico, altro che difesa degli interessi nazionali secondo la retorica sovranista.
Il via libera alla riforma, del resto, non vuol dire accedere materialmente ai finanziamenti del Mes, neanche a quelli privi di condizionalità e riservati al sistema sanitario in chiave anti-pandemia; il compromesso raggiunto nella maggioranza si basa sostanzialmente proprio su questa distinzione.
Il Governo, peraltro, ha incassato nella stessa giornata anche un altro successo parlamentare: l’approvazione da parte della Camera del decreto in materia di immigrazione e sicurezza che finalmente modifica i decreti Salvini. Perché il decreto diventi definitivamente legge occorre ancora il disco verde del Senato, ma il percorso alla Camera è stato molto accidentato soprattutto per l’ostruzionismo di Lega e FdI e quindi il risultato non è irrilevante per la maggioranza, che ha dovuto far ricorso anche al voto di fiducia.
Com’è possibile, allora, che il Governo si ritrovi proprio ora in una situazione di crisi (politica, non formale) virtualmente aperta, con Renzi che di fronte al Parlamento minaccia di uscire dalla coalizione e di non votare la legge di bilancio? È una di quelle situazioni paradossali che spesso rendono incomprensibile la politica agli occhi dei cittadini, tanto più in una fase drammatica per il Paese, ancora sferzato dai colpi della pandemia. Per provare a dipanare la matassa bisogna partire dall’oggetto delle rivendicazioni del leader di Italia Viva, che contesta al premier Conte il meccanismo individuato per gestire i circa 200 miliardi del piano europeo. Questa, a ben vedere, è da mesi la vera, grande questione attorno a cui ruotano interessi e progetti, politici e non. Altro che Mes…
Per il nostro Paese si tratta di un’occasione irripetibile e le scelte che saranno compiute avranno ricadute per non pochi anni, sicuramente oltre i limiti della presente legislatura, anche se si dovesse arrivare alla sua scadenza naturale nel 2023.
Conte ha concepito una cabina di regia a tre con i ministri dell’Economia e delle Infrastrutture, Gualtieri (Pd) e Patuanelli (M5S), a sovrintendere su sei supermanager dotati di ampi poteri, uno per ciascuna delle “macro missioni”, cioè i filoni-chiave di investimento, dalla digitalizzazione alla conversione ecologica, dalla sanità all’inclusione sociale e territoriale. I critici (e con essi Renzi) obiettano che così verrebbero esautorati gli altri ministeri e soprattutto il Parlamento. L’obiezione in sé non è affatto insensata, però i ritardi cronici che il nostro Paese ha manifestato nello spendere i fondi europei ordinari inducono a pensare che non ci si possa limitare ad applicare tout court le normali procedure. A maggior ragione se si tiene conto che i fondi saranno progressivamente erogati in rapporto allo stato di attuazione dei progetti messi in campo. E viene anche da domandarsi dove sia finita tutta l’enfasi che è stata messa, anche da parte delle attuali opposizioni, sul cosiddetto “modello Genova”, che ha consentito di ricostruire in un tempo record il ponte autostradale dopo il tragico crollo del Morandi.
Trovare un punto di equilibrio organizzativo non appare comunque impossibile e così pure assicurare un maggior coinvolgimento di tutti i partiti della coalizione di governo, se questo si rivelasse in fondo il problema più sentito. Se invece l’obiettivo reale fosse far cadere il Governo, aprendo una crisi formale e portando alle dimissioni il presidente del Consiglio, allora la ricerca di un nuovo equilibrio per il futuro apparirebbe estremamente difficile. Quando dal Quirinale arriva il messaggio che dopo questo Governo ci sono soltanto le elezioni, vuol dire che la possibilità di costruire un esecutivo diverso viene considerata irrealistica e tale effettivamente si dimostra considerando tutti i fattori in gioco. Invece di giocare d’azzardo in un frangente drammatico e già di suo pieno di incognite, la politica farebbe bene a riprendere le parole che il capo dello Stato ha pronunciato ricordando il suo predecessore Ciampi: “coesione”, “unità del Paese”, “spinta all’unione dell’Europa”.