A 15 mesi pesava 6 kg, non parlava e non camminava, ma per Giusy Amato è stato amore a prima vista. “Mi sono innamorata subito di quell’uccellino ferito, stanco, che si lamentava senza nemmeno la forza di piangere e ho capito che non l’avrei più lasciato”ci racconta. L’incontro fatale, destinato a cambiare per sempre la vita del piccolo Mario e della famiglia Silvestri, avviene il 15 dicembre di 23 anni fa, quando Giusy si reca come tutti i giorni all’ospedale Casa Sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo, dove svolge servizio come psicologa occupandosi in particolare di accompagnare bambini oncologici, spesso terminali, insieme alle loro famiglie, e di seguire il personale sanitario a rischio burn out. Così, quella mattina, l’infermiera con cui avrebbe dovuto avere un colloquio stava preparando il piccolo Mario all’ennesimo intervento neurochirurgico. Nato prematuro con spina bifida, idrocefalo e piedini torti, il bimbo sta per entrare in sala operatoria per la 15ª volta nella sua brevissima vita e Giusy si accorge che non c’è la mamma ad accompagnarlo in pre-anestesia perché, le spiega l’infermiera, è stato abbandonato alla nascita. Dall’ospedale di Altamura è stato trasferito a Casa Sollievo dove è rimasto a neonatologia, accudito amorevolmente da tutti e sottoposto ogni mese a interventi chirurgici di drenaggio per prevenire infezioni al midollo spinale.
Giusy lo prende in braccio, lui la guarda un attimo, “non dimenticherò mai il suo sguardo. Era come se dicesse: mi abbandonerai anche tu?”, e si addormenta. In cuor suo Giusy ha già deciso. Ne parla subito con il marito Nicola Silvestri, medico e allora vice direttore sanitario dell’ospedale, e, arrivata a casa, con la figlia più grande, Valentina, all’epoca dodicenne. Sì perché Nicola e Giusy hanno già cinque figli: due bambine e tre bambini, e Mario sarà il sesto. Giusy spiega a Valentina che vorrebbe far passare a questo bimbo il Natale con loro e lei risponde:
“Qual è il problema? Dove stiamo in cinque possiamo stare in sei”.
Il piccolo viene operato e una settimana dopo entra nella famiglia Silvestri. Ma non è un percorso in discesa. Al di fuori della famiglia, tutti tentano di scoraggiare Giusy: “Ma chi te lo fa fare? Hai già cinque figli, un lavoro impegnativo. Questo bambino svilupperà diverse patologie, avrà bisogno di molte cure e probabilmente non vivrà a lungo”. Ma Giusy non si lascia intimorire: il suo istinto di madre e la sua competenza professionale le fanno intuire che in ospedale Mario “si sta lasciando andare, non vuole vivere”.Il 23 dicembre il piccolo viene avvolto dall’affetto di una vera famiglia. Vissuto fino a quel momento in una condizione di deprivazione sensoriale e vomitando dalle sei alle otto volte al giorno, in poco tempo inizia a vomitare sempre meno, a prendere peso e poco dopo Capodanno, ascoltando i fratelli, impara a chiamare “mamma” e “papà”, racconta Giusy con la voce che ancora si incrina per l’emozione. Piano piano il suo vocabolario si arricchisce e dopo un anno di affido inizia l’iter per l’adozione.
Ma il suo continua ad essere un percorso in salita: Giusy lo porta al Rizzoli di Bologna, poi al Niguarda di Milano dove si sente dire che resterà disteso tutta la vita. Ma non si arrende e lo fa visitare anche in un centro di riabilitazione pediatrico a Monaco di Baviera. Il bimbo frequenta l’asilo, la scuola, prosegue ogni giorno la fisioterapia. Oggi ha 24 anni, si è diplomato ragioniere ed è un atleta parilimpico, specialità lancio del disco. “Ha un lieve disagio intellettivo nella memoria a breve termine, ma ha imparato a usare dei meccanismi per sopperire ai suoi limiti”, dice la mamma.
Giusy, che cosa ha dato Mario alla vostra famiglia? “Molto più di quanto non abbia ricevuto – la risposta -. E’ il nostro raggio di sole ed è stato un modello pedagogico perché ha educato i fratelli a ridimensionare le proprie difficoltà e delusioni e a comprendere quali sono le priorità, le cose davvero importanti nella vita”. E di fronte all’introduzione, in Olanda, dell’eutanasia anche per i bimbi da 1 a 12 anni, dopo quella per i piccolissimi 0-12 mesi e per gli over dodicenni, è un fiume in piena: “Si parla di interruzione di vita intenzionale concordata tra medici e genitori; ma quale genitore ‘concorda’ di uccidere il proprio figlio? Le stesse persone – anche medici – che 23 anni fa mi consigliavano di abbandonare Mario al suo destino dandolo per spacciato, vedendoci oggi dicono che non avrebbero mai immaginato che potesse vivere così a lungo a raggiungere i traguardi che ha conseguito. E proprio a tutti i medici che ragionano così io vorrei dire, in base alla mia esperienza: non chiudete mai le porte di fronte un bambino terminale o in condizioni gravi o gravissime.
Non togliete la speranza ai genitori!
Sono fragili, smarriti. Io capisco la loro disperazione: vedono il figlio soffrire e si sentono soli e impotenti… Non si devono sentire abbandonati. Non hanno bisogno di questo tipo di ‘soluzioni’ ma di essere accompagnati e sostenuti, di medici che dicano loro: siamo con voi. Proviamo a lottare insieme!”.