“Per me, la morte di questo piccolo non è come le altre”. Don Carmelo La Magra, parroco di Lampedusa racconta così, con la voce rotta dalla commozione, il dramma del piccolo Joseph, il bimbo di appena sei mesi che veniva dalla Guinea. Tra i morti del naufragio dell’11 novembre nel Mediterraneo centrale, insieme a centinaia di corpi in mare, c’era anche lui che viaggiava con la sua mamma, sopravvissuta. “La morte di questo piccolo e il grido disperato della sua giovane mamma rappresentano un macigno sulla nostra cultura occidentale – dice – ma se tutto si fermerà alla commozione di questi giorni avremo fallito un’altra volta”.
Don Carmelo, come sta, come vanno le cose sull’isola?
Bene, compatibilmente con quanto successo e con quanto sta succedendo! Stiamo un po’ come sempre. Non è una novità per l’isola affrontare eventi di questo tipo e di questa portata. Detto questo, viviamo una tristezza immensa per i tanti morti, per le tante persone morte, anche stavolta, nel tentativo di raggiungere le nostre coste. E comunque, a parte questo, l’accoglienza continua come sempre.
Parliamo del piccolo Joseph, sei mesi, deceduto in mare. Anzitutto come sta la mamma?
La mamma fisicamente sta bene, ma psicologicamente è devastata, distrutta perché sa che ha perso il suo piccolo, sa che ha perso tutto. Per ora è ospite dell’Hot Spot in attesa di essere trasferita come gli altri. Volutamente non l’abbiamo ancora incontrata. Abbiamo preferito lasciarla il più possibile tranquilla e in pace seguita da medici e psicologi. Sicuramente sarà con noi quando ci riuniremo per la sepoltura del piccolo.
Quando avverrà e dove sarà sepolto?
Aspettiamo che l’iter burocratico sia completato. Poi procederemo alla sepoltura che avverrà qui, nel nostro cimitero, che di migranti, spesso senza nome, ne ospita già tanti.
Cosa c’è di nuovo, se c’è qualcosa di nuovo, nella morte di questo bimbo
Non faccio assolutamente nessuna disparità, ma
la morte di questo piccolo per me non è come le altre.
Questo bambino era nato in Libia e come tanti suoi coetanei in diverse parti del mondo, non ha mai conosciuto la libertà, la pace. In altre parole non ha mai fatto il bambino, cioè non ha mai avuto la possibilità di vivere in un Paese dove i diritti dei più piccoli sono garantiti e sacri. Diritti che forse, in un certo senso, non siamo riuscirti garantire neanche noi, vittime come siamo, della nostra incapacità di capire che i flussi migratori, quando nascono dalla fame e dalla povertà sono inarrestabili. Chi scappa da guerra e persecuzioni non si fermerà di fronte all’ignoto e alle difficoltà. Credo chegarantire vie sicure di arrivo come i corridoi umanitari, avrebbe salvato questo bambino. La sua morte è un macigno sulla nostra cultura occidentale, democratica e cristiana.
Il grido della mamma ha fatto il giro del mondo.
Quel grido è un peso grande. Ricordo che papa Francesco, quando venne a Lampedusa, volle leggere il Vangelo della strage degli innocenti dove si ricorda che: “Rachele piange i suoi figli che non sono più”. Ecco questa donna incarna Rachele. Il suo grido è il grido di ogni mamma che perde il figlio e con lui qualsiasi speranza nel futuro. Questa mamma è giovanissima, ma è come se fosse morta anche lei col suo piccolo che rappresentava la sua speranza, il suo futuro che iniziava a crescere. Il grido di questa giovane donna pesa sulle nostre coscienze, ma se tutto si fermerà alla commozione di questi giorni avremo fallito un’altra volta. Quel grido deve tradursi in scelte concrete nel fare il bene dei poveri e degli emarginati, come ci ricorda continuamente il Papa.
Dalla sua visita a Lampedusa papa Francesco è sempre vicino a voi tutti, alla vostra comunità.
Sappiamo che il Papa ci è sempre vicino e sappiamo per certo che possiamo contare sulla sua preghiera e sulla sua vicinanza. La sua è una delle poche voci che in questo momento ci danno il coraggio e la speranza per andare avanti.