Proteste in piazza. Fiasco: “È venuta a mancare la tensione morale collettiva della prima fase”

"Lo 'spettacolo' di conflittualità tra scienziati, comunicatori, istituzioni e politici ha indebolito la credibilità delle misure, ha insinuato il dubbio che ci siano interessi nascosti e reso discutibile il messaggio di allarme": parte da qui l'analisi del sociologo Maurizio Fiasco per comprendere le manifestazioni e gli scontri che stanno percorrendo tutta l'Italia in questi giorni, come risposta alle nuove misure anti contagio adottate a livello nazionale e regionale

(Foto: ANSA/SIR)

Prima Napoli, poi Roma, Milano, Torino… Dallo scorso fine settimana si susseguono le manifestazioni di piazza contro le misure adottate da Regioni e poi Governo per contenere l’espandersi del contagio da Covid-19, che con la sua crescita esponenziale inizia a mettere sotto pressione il Sistema sanitario nazionale. Ma non sono state proteste pacifiche per manifestare il disagio di chi da quelle misure rischia di essere schiacciato: atti di violenza, vandalismo e saccheggio sono stati la cifra di questi eventi. Ne parliamo con il sociologo Maurizio Fiasco.

Come giudica queste proteste?

Perché ora e non prima? Cosa manca adesso e precedentemente no? Anche all’inizio c’erano i motivi per andare in escandescenza: allora, perché le ragioni della protesta prima sono state contenute al contrario di oggi? Sono le domande da porsi.

Oggi manca l’azione partecipata di comunità che ha pesato, positivamente, sulle prime settimane della tragedia.

Nella prima fase vi è stata una tensione morale collettiva, un grande contenitore educativo, che ha creato una koinè, un sentirsi veramente un popolo sulla stessa barca. Purtroppo, non si è avuta l’intelligenza di valorizzare tutto ciò: eppure, quell’azione di comunità ha accresciuto la reputazione dell’Italia sulla scena mondiale; è stato un comportamento sociale con riflessi positivi anche a livelli di valore economico. La prima fase, dunque, è stata esemplare. Oggi manca la stessa autorevolezza, mancano i fattori che spingano alla replica di quella tensione morale collettiva perché si è indebolita la credibilità di fattori fondamentali. Innanzitutto, il mondo scientifico ha messo in piazza il suo scontro di potere interno: invece di adottare un codice di autodisciplina per la comunicazione in pubblico, gli uomini di scienza si sono lasciati andare a polemiche di cortile in tutte le ore della giornata, su tutti i canali televisivi. Questo ha spiazzato e fiaccato il morale degli italiani, indebolendo il peso delle prescrizioni di difesa sanitaria.

Colpa solo degli scienziati?

No, pesa anche l’incontenibile narcisismo a esporsi in pubblico, quali protagonisti della difesa sociale, di molti conduttori, grandi firme del giornalismo, opinionisti di grido, che non sottopongono a nessun vaglio critico onesto le affermazioni che fanno. Anche questo comportamento causa danni perché intacca quella tensione morale collettiva che tanto ci ha fatto bene nei giorni della tragedia. Terzo fattore negativo è la conflittualità tra livelli dello Stato: comuni, regioni, governo, con i politici alla ricerca di visibilità. Questo “spettacolo” di conflittualità tra scienziati, comunicatori, istituzioni e politici ha indebolito la credibilità delle misure, ha insinuato il dubbio che ci siano interessi nascosti e reso discutibile il messaggio di allarme: così sono diventati poco credibili i comportamenti di responsabilità individuale e di preveggenza, in sostanza si è indebolita la tenuta morale del Paese. Insomma, più le difese “immunitarie” di tipo sociale, etico, deontologico si sono indebolite, più non hanno avuto la forza di scoraggiare e inibire tutti i fattori disfunzionali, distruttivi, di pulsione violenta, di irresponsabilità, che, al contrario, in questo momento hanno fatto trovare la strada spianata ai facinorosi, in questa espressione sguaiata e violenta che vediamo nelle piazze.

È venuta mano anche la paura del virus?

La paura è funzione della rappresentazione del pericolo. Nella prima fase siamo stati agli arresti domiciliari, ci salutavamo dai balconi, eppure le regole gli italiani non le rispettavano per paura ma per un sentimento positivo: eravamo tutti insieme per fronteggiare l’attacco. Le bandiere, i cori. Basti pensare alla cassiera che non ha mai smesso di sorridere con gli occhi davanti alle persone che le sfilavano davanti tutto il giorno: non è resistenza quella? Il parroco che io vedevo dalla mia finestra che saliva tutti i giorni sul tetto della chiesa a mezzogiorno per rivolgere una parola di conforto, dare la benedizione e augurare buon pranzo non era un esempio di resistenza? Ma ce ne sono tanti di esempi. Tutta la crescita di capitale sociale, tutte queste riserve morali sono state umiliate dall’indegno spettacolo di scontri di potere, di esibizioni narcisistiche, di invalidazione di coesione nazionale.

(Foto: ANSA/SIR)

Quanto ha pesato la crisi economica?

Il fattore economico c’è, ma non scendono in piazza quelli che sono stati colpiti dalla crisi, non sono tra coloro che sfasciano le vetrine.

La paura economica in chi è colpito nel suo reddito c’è come sofferenza, come grido di dolore, ma non nelle piazze o nelle strade.

Tra i fermati per le violenze di questi giorni ci sono anche tanti minori…

Non deve meravigliare. I cattedratici che si sfidano a tenzone oratoria nei talk show sono minorenni o adulti? Il sistema degli adulti si è visto diviso, con sterili polemiche nella sfera scientifica, politica, educativa, delle amministrazioni.

Il mondo degli adulti ha perso credibilità.

In piazza confluiscono varie cose che provengono da diverse matrici perché non c’è più la forza contenitiva sociale di una coesione attorno a valori che appaiono nella loro schiacciante evidenza.

Se per fermare la seconda ondata diventasse necessario adottare misure ancora più rigide delle attuali che scenari si aspetta?

Bisogna cambiare scena di gioco. Si lavora su due poli: quello dell’esortazione e quello della prescrizione, cioè le regole e i divieti. L’esortazione può surrogare tutti quei fattori partecipativi nel momento in cui l’esortazione è univoca, ma abbiamo visto che attualmente non è così. Cosa manca? L’azione partecipata, l’azione resistenziale che assegni un compito a tutti: agli anziani, ai bambini, agli adulti, a chi lavora, a chi deve stare a casa.

Abbiamo bisogno che ognuno faccia la sua parte nella “resistenza”.

Si può ritornare a un’azione partecipata?

Sì, ma ci vuole una coesione politica. Ci vuole che gli uomini di scienza, i media, la politica, maggioranza e opposizione adottino un comune codice. È necessario che ci sia un grande contenitore di responsabilità che prevalga su tutto il resto.

Senza quest’atto di responsabilità da parte di politici, scienziati, comunicatori cosa ci possiamo aspettare?

Sarebbe molto pericoloso,

come la frustrazione di non proiettarsi sul dopo, come invece accadeva nella prima fase accettando i sacrifici del durante. Non dimentichiamo i cinque o sei milioni di famiglie che provano per la prima volta nella loro esistenza l’amara condizione di debitore insolvente: questo attiva uno sconvolgimento psicologico, mortificazione, rabbia. Anche se non vanno in piazza, queste famiglie soffrono. A loro più che il sussidio, i contributi e i ristori andrebbero date procedure per l’affrancamento dallo stato di debitoria insolvenza. Se questa situazione debitoria rientra velocemente l’attuale condizione resta come un brutto sogno, se persiste c’è la trasformazione di persone normali in persone in sofferenza cronica, persone che non attivamente ma anche solo con il loro orientamento possono dare il consenso alle proposte più eversive, più estreme.

(Foto: ANSA/SIR)

Che futuro possiamo immaginare?

Se al posto di “one up e one down” ci sta la costruzione di un noi partecipato, morale e responsabile, si può uscire dalle difficoltà attuali. Oltre agli atti violenti, c’è un disimpegno morale che anche se non si esprime in maniera eclatante si osserva. Si stanno creando dei dualismi tra garantiti e non garantiti. Non tutti hanno sofferto allo stesso modo: ci sono alcune parti della società che erano e sono garantite, che non hanno sofferto, pensiamo all’area del pubblico impiego, aziende non toccate dallo stop produttivo, servizi essenziali che hanno mantenuto i livelli di occupazione e di reddito, e l’area dei non garantiti, 7 milioni di occupati non registrati, una volta avremmo detto in nero. Potrebbe essere questa l’occasione per risolvere questo dualismo integrando gran parte dei non garantiti e responsabilizzando i garantiti. Ma qui si ritorna nella costruzione di un noi, della partecipazione, del ritrovare la coesione.

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