Quando la vita trema… Parola, fede e Chiesa oltre la pandemia

“La ‘roccia’ del dopo-lockdown sarà la speranza che posa i piedi sulla resilienza. Sarà la Parola che nutre i sogni e dipinge archi di eterne alleanze, nel Cielo”. "Roccia è la Chiesa fatta di quelle pietre vive che sono i credenti e tenuta salda dalla pietra angolare che è Gesù Cristo". Pubblichiamo un paragrafo del saggio di Rosanna Virgili, biblista, contenuto nel volume “Contagiati. Pensieri, comportamenti, prospettive oltre il coronavirus” (ed. In Dialogo)

La biblista Rosanna Virgili (Foto Siciliani-Gennari/SIR)

La paura, si sa, è un segnale inconscio e anticipatorio, un campanello che allarma sul rischio di morire. Per questo il paragone migliore, per parlar di paura, è quello di una casa che trema e sente di esser fondata sulla sabbia. In effetti i pilastri della nostra “solidità” – la salute, il lavoro, le relazioni – hanno subìto un vero terremoto. La pandemia Covid-19 è stata causa di diverse paure: di ammalarci, di morire, di non avere armi di difesa, di andare incontro all’ignoto, a qualcosa che non potevamo/possiamo controllare, di non poter soccorrere i nostri cari, di essere soli a combattere, di perdere il lavoro.

Dove abbiamo cercato di ripararci da tante paure?

Su quali scialuppe abbiamo cercato di saltare prevedendo il naufragio della nave? Potremmo elencare le più comuni: nella fiducia in chi ci dava istruzioni per difenderci (gli scienziati, i politici), nel chiuso delle nostre case, nei nostri affetti, nei nostri conti correnti (stipendi sicuri, pensioni o rendite fisse ecc.), nelle strutture e nei presìdi sanitari, nella Tv, nel telefono e nella tecnologia (le piattaforme digitali, internet, WhatsApp, Skype ecc.) per avere notizie più dirette, per comunicare coi familiari (figli, nipoti, parenti, amici fisicamente lontani), o anche nel commercio online che abbiamo usato per ordinare la spesa, la pizza, i medicinali, così come per ottenere impegnative da portare in farmacia dal nostro medico di famiglia. Certo, si è trattato di scialuppe dove solo una parte d’Italia (e del mondo…) si è potuta imbarcare. Molti han dovuto aggrapparsi ai rottami della nave; altri – senza neppure quelli – hanno nuotato finché c’era il fiato.
E la fede? Per i cattolici la fede è stato un “luogo”, un “dove” cui si sono appellati? Ha avuto un’importanza? Consideriamo, allora, cosa si debba intendere per “fede”. Normalmente si tratta della base dell’osservanza cattolica che si esprime, innanzitutto, attraverso il culto. Esso ha tre pilastri: la vita cristiana regolata dai sacramenti; la messa domenicale; la santificazione delle feste da parte di tutto il popolo di Dio. Ed ecco che è d’obbligo chiedersi: com’è stata la pratica religiosa cattolica nel lockdown? Proviamo a descriverla: le chiese sono state disponibili solo per un piccolo numero di persone che vi si recasse per la preghiera individuale; le messe sono state sospese; anche nel tempo della Settimana Santa e della Domenica di Pasqua son state celebrate funzioni liturgiche senza assemblea (si pensi alla piazza San Pietro vuota o alla Basilica senza popolo) e senza Eucaristia, senza comunione sacramentale; i sacramenti non sono stati celebrati: sono state sospesi e rinviati i sacramenti dell’Eucaristia, della Riconciliazione, la Cresime, i Matrimoni, l’Ordine sacro. Quanto al sacramento dell’Unzione dei malati – che il più delle volte non può esser sospeso né dilazionato – purtroppo non c’è stata celebrazione. A fronte della sospensione o mancanza di queste “pratiche” si sono create due reazioni contrapposte e ambedue estreme: alcuni hanno avuto paura di perder la vita cristiana; altri, al contrario, hanno avuto la percezione che, nella vita cristiana, si potesse fare a meno di quanto sopra e che bastasse alla fede la presenza/esperienza spirituale di Dio, nella preghiera individuale o nelle intenzioni del cuore.

Ma ciò che si deve effettivamente registrare è che in questo tempo ha trovato molto spazio la parola/Parola:

quella fraterna e familiare e quella ecclesiale. Quella amicale e quella biblica. Ha trovato spazio e coraggio l’“a tu per tu”. E l’orecchio del silenzio, essenziale per lo scambio della Parola. Pensiamo alle omelie del Papa nella messa mattutina a Santa Marta, trasmessa in tivù, che ha avuto milioni di assidui “partecipanti” e, così pure, le sue meditazioni e i suoi discorsi; pensiamo al “servizio” della catechesi e della pastorale condotto con grande passione, fantastica creatività e senza soluzione di continuità da parte di parroci, sacerdoti, religiosi e laici; c’è stato tanto spazio per l’ascolto, la lettura, la meditazione, la condivisione, la carità, l’impegno sociale, i mille fronti della solidarietà, la cura delle relazioni (familiari e di gruppo), il dialogo con gli altri e con se stessi, l’intimità col creato e col mondo.
La Parola è davvero potente perché ha un’anima spirituale e può rigenerare e rigenerarsi. Leggiamo volentieri la parabola della casa sulla roccia con cui Gesù conclude – nel Vangelo di Matteo – il suo primo, maestoso e meraviglioso discorso, iniziato, non per nulla, con le Beatitudini…
Fare la volontà di Dio vuol dire ascoltare la parola del Signore e metterla in pratica. Questa coerenza corrisponde al “costruire la casa sulla roccia”. Mentre ascoltare la parola del Signore e non metterla in pratica significa costruire la casa sulla sabbia. Gesù sottolinea il primato dell’ascolto fecondo nella religiosità dei credenti. L’uomo intelligente (phrònimos) ascolta la parola e sa tradurla in atti concreti, nella vita stessa; lo stolto (moròs) è superficiale e non rende “anima” della sua vita la Parola. La persona lungimirante costruisce sulla roccia, mentre quella inconsistente costruisce sul provvisorio. La prova della fragilità o della solidità è il tempo della paura, i giorni della tempesta, come per noi è stata la pandemia. Abbiamo potuto riscontrare l’autenticità della nostra fede: se si basasse su un velleitario dire: «Signore, Signore» o sull’assunzione concreta, profonda, coerente della sua Parola. Abbiamo potuto provare la nostra fede: se fosse qualcosa di inutile per affrontare la paura, o se fossimo radicati su di essa come sulla roccia: vale a dire sulla fiducia in Lui, sull’amore fraterno, sulla cura vicendevole, sulla com-passione di chi soffre, sulla comunione spirituale che è il vero basamento della Chiesa.
Sembra un paradosso ma la fede trova fondamento non sui corpi solidi – le strutture “fisiche” di ogni genere – ma su ciò che è inafferrabile, leggero come l’aria e migrante come il vento che spira dove vuole, suscitando bocci di inaudite profezie. La “roccia” del dopo-lockdown sarà la speranza che posa i piedi sulla resilienza. Sarà la Parola che nutre i sogni e dipinge archi di eterne alleanze, nel Cielo. Una «roccia eterna è il nostro Dio» (Is 26,4); «Egli è la roccia, perfetta è l’opera sua» (Dt 32,4). Roccia è la Chiesa fatta di quelle pietre vive che sono i credenti e tenuta salda dalla pietra angolare che è Gesù Cristo. E roccia sarà anche Simone, il più debole tra tutti gli apostoli e forse, proprio per questo, fatto “pietra” su cui Egli edifica la Chiesa (Mt 16,18). La fede è, nella sua essenza, un “camminare sulle acque”; se l’esperienza destabilizzante della pandemia ha permesso di intuire la grazia della fragilità e del limite, se ne faccia tesoro.

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