Non sappiamo ancora cosa ci riserva il futuro dopo la grande ondata della pandemia da Covid-19. Andrà “tutto bene”? Tornerà tutto come prima? Sicuramente cambierà il modo in cui società che non avevano mai assistito a questa forma di catastrofe vedranno il mondo. Anche se il paragone con la peste nera del XIV e XV secolo o con l’influenza “spagnola” tra il 1917 e il 1919 è molto calzante, sono profondamente diverse le condizioni in cui il mondo nel XXI secolo ha affrontato il virus. Infatti, la scelta del lockdown e la sospensione della vita sociale, della maggior parte della produzione e degli spostamenti internazionali ha reso questo evento unico nella storia dell’umanità. Da un Paese all’altro le immagini di strade deserte, piazze vuote, assenza dei trasferimenti abituali, scuole e fabbriche chiuse non si dimenticheranno facilmente…
In un momento come questo, in cui a tutti i cittadini è stata imposta la distanza fisica per la necessità di evitare ulteriori contagi, la tecnologia – in particolare – ha assunto un ruolo fondamentale e un potere immenso. Mai come ora appare chiaro che la nuova cittadinanza si costruisce nella rete, e attraverso la rete, in un rapporto di continuità e dialettica tra l’online e l’offline. All’inizio di questa avventura, e in particolare con l’avvento dei social media, si era creduto che il web fosse una nuova religio che potesse connettere le persone creando, in modo automatico, una maggiore consapevolezza e società democratiche.
La rete ha rappresentato uno dei legami fondamentali con gli altri, soprattutto nei giorni in cui non era possibile muoversi fisicamente; è stata, quindi, un’occasione straordinaria di unità. Tuttavia, come è ormai noto, ha un suo dark side, un lato oscuro che richiede vigilanza ed energia di controllo. Davanti a tanti fenomeni contrastanti, infatti, si fa strada il dubbio che la comunicazione non sia sempre “naturalmente” positiva. Anzi, i fenomeni di fake news, tendenza al complottismo, derive antiscientifiche, hate speech, cybercrimini, dimostrano che occorre esercitare nuove competenze civiche per collegarsi senza danni a sé e agli altri.
Nei giorni della pandemia sono emersi i due volti della rete.
Da un lato, gran parte della vita sociale è stata garantita dalla connessione con l’esterno. Si è diffusa una intensa creatività sociale, che ha permesso di incontrarsi nei modi più diversi. Allo stesso tempo, le infinite possibilità di collegamento hanno dato luogo a una vera e propria infodemia, cioè un eccesso di informazioni che costituisce uno dei punti deboli della web society. Una conoscenza pressoché illimitata dal punto di vista quantitativo ma senza un’adeguata catalogazione e spesso senza chiavi di lettura si dispiega, come una sorta di sapere esteso (lo nota Michel Serres), senza scarto o discontinuità tra la dimensione del reale e il virtuale. La mancanza di punti di riferimento, di mappe mentali, se non quelle puramente informative (i motori di ricerca) rischia di creare disorientamento.
Quando un evento come il coronavirus arriva inatteso, ci si interroga sulle cause di ciò che è successo. Spesso, le spiegazioni scientifiche non risultano convincenti a chi pensa di sapere anche se non ha sufficienti conoscenze. Si rafforza così la tendenza alle spiegazioni cospiratorie e complottiste, per cui qualche “grande vecchio” o poteri nascosti manipolano la verità a danno della gente. L’esempio più classico, in questi casi, riguarda la ricerca di un colpevole, spesso cercato in gruppi-bersaglio. Tornano anche antichi pregiudizi e superstizioni nell’individuare presunti “untori” (ad esempio gli ebrei, oggetto di ostilità tanto irrazionale quanto pericolosa). Basti pensare, ancora, a come in passato si sia diffusa un’ideologia no-vax contro i vaccini, che ha esposto tutta la collettività a pericoli per la salute, e come nel periodo della pandemia si siano rilanciate falsità e fake news sulle possibili cure.
Siamo interrogati, di conseguenza, su come la cittadinanza “a distanza” debba trovare nuove forme tra il reale e il virtuale. Da un lato, sul piano delle conoscenze e delle informazioni, l’educazione deve formare un cittadino/a dotato di pensiero critico e autonomo, che sappia comprendere i concetti, confrontarli, che sappia affrontare le contraddizioni. Dall’altro, in una società frammentata e tentata da divisioni su base etnica o etica all’interno dello Stato, il civismo si basa sulla capacità di contrastare il pregiudizio, inteso come distorsione patologica che attribuisce in modo rigido e automatico determinati caratteri alle persone sulla base della loro appartenenza. Un’educazione alla cittadinanza critica e creativa deve permettere di collegare in modo organico e strutturato la complessità dei saperi – sul modello delle intuizioni di Edgar Morin – e non solo a “unire punti” distinti e privi di reale collegamento.
Vi è poi la dimensione civica del dialogo, anche a distanza, per evitare le polarizzazioni e coltivare tolleranza
e capacità dialettiche anche attraverso esposizione a idee contrastanti o a opinioni lontane dalle proprie. Ma, in conclusione, occorre ribadire che, in una società sempre più emozionale, le capacità logico-razionali non sono mai esercitate in astratto. Occorre coltivare quelle emozioni civiche e politiche (si pensi agli scritti di Martha Nussbaum sull’argomento) legate a valori quali il rispetto, la solidarietà, l’amicizia. Essere cittadini non rappresenta solo un ruolo ma una passione civile che rafforza la partecipazione e il senso di appartenenza.
Non sappiamo veramente quali trasformazioni create da una situazione così eccezionale saranno durature. Siamo tutti consapevoli che ci aspettano tempi difficili, a causa di un enorme calo di produttività che fa guardare con paura all’avvenire. Ma possiamo dire che senza simpatia, fiducia e sensibilità morale sarà più complicato affrontare il futuro.