Da più parti ci si chiede come sarà il mondo dopo la pandemia di Covid-19 e un aspetto fondamentale di questa riflessione non può che riguardare la comunicazione, che mai come in questa emergenza sanitaria mondiale ha dimostrato tutta la sua centralità. E non poteva essere altrimenti, dato che ogni uomo è oggi un media, tutti siamo interconnessi e non è più concepibile considerare l’umanità scissa dalla comunicazione, soprattutto a partire dall’avvento di Internet. Tutto ciò fa il paio evidentemente con un sovraccarico informativo, la moltiplicazione di piattaforme, la generazione costante di iniziative editoriali che provocano uno stress sociale in cui si insinua il tarlo della disinformazione, che va a scapito della libertà della stessa cittadinanza, in quanto non le consente di prendere delle decisioni consapevoli e veramente utili.
Non restare alla finestra. La Chiesa – le comunità ecclesiali – non può esimersi da considerare tutti questi elementi, ma al tempo stesso non può stare alla finestra a guardare lasciando che la tempesta passi. Maestra di umanità, essa può invece inserirsi in questo flusso ormai irrefrenabile e continuare a fare la propria parte da protagonista. A partire da tutto quanto dimostrato dall’emergenza per il Covid-19, ritengo che ci siano almeno 3 fronti su cui impostare il lavoro comunicativo del futuro: vicinanza, fiducia e vocabolario.
Stare vicino. Nell’intervista rilasciata all’inizio della Settimana Santa di quest’anno a The Tablet, Papa Francesco ha detto chiaramente che la sua principale preoccupazione per il dopo Covid era quella di trovare i modi per “stare vicino” al popolo di Dio. Tra le principali vittime della solitudine ci sono sempre stati innanzitutto gli anziani, e la pandemia lo ha evidenziato in maniera ancora più forte e purtroppo drammatica. Papa Francesco aveva visto lungo anche in questo, tanto è forte il richiamo che da sempre rivolge sull’attenzione alla popolazione della terza età nella sua predicazione. Dovranno perciò essere loro i pubblici privilegiati della vicinanza della Chiesa, anche sul piano comunicativo, per stimolare la società a rendersi conto di questo speciale tesoro – “le radici”, come le chiama Papa Francesco – che per troppo tempo ha messo all’angolo, e che il Coronavirus ha addirittura fatto evaporare falcidiando le vite di migliaia di nonni. Legato a ciò c’è la vicinanza da mostrare ai ragazzi, coloro che da queste radici avrebbero dovuto trarre la linfa per diventare uomini nella società, e con loro alle famiglie, la dimora dove trascorrono il loro tempo e ricevono i principali insegnamenti.
C’è da mostrare inoltre vicinanza al mondo dell’educazione, dalle scuole dell’infanzia alle Università, e quindi agli insegnanti che ne sono il motore, perché è la scuola che insieme alla famiglia consente a una società di gettare le fondamenta qualitative del suo domani.
Infine c’è il mondo dell’impresa e del lavoro, altra vittima di questa pandemia, che dovrà rimettersi in sesto anche per generare un futuro economico per le popolazioni. Solidarietà, educazione e lavoro, dunque, come temi pienamente in linea con la Dottrina Sociale della Chiesa.
Fiducia. Come istituzione la Chiesa dovrà riacquistare la fiducia del suo Popolo, e ciò si collega strettamente con il tema della vicinanza di cui sopra. Più sono veramente vicino alle persone più acquisisco credibilità e termino per essere considerato partner affidabile nelle sfide che la storia mi presenta.
Il principale modo per trasmettere fiducia attraverso la comunicazione è quello di mostrarsi innanzitutto competenti: si parlerà soltanto di ciò che si saprà a fondo, perché studiato nei dettagli ed elaborato con perizia. L’altro elemento è quello dell’onestà, che fa il paio con la trasparenza,
cioè il comunicare in maniera limpida, anche le proprie vulnerabilità, senza nascondere nulla perché diversamente questo generale nei “pubblici” considerazioni non proprio piacevoli. Infine bisognerà mostrarsi affidabili: pochi dati ma certi e di qualità, poche parole ma veritiere e chiare, pochi piani, ma tutti realizzabili, massima disponibilità a dare supporto e ad assistere. E questo sarà di conseguenza un modo concreto per superare lo scoraggiamento del proprio popolo, che in questo momento è molto ferito e abbastanza abbattuto. Il tutto andrà promosso con grande positività e vero senso di comunità.
Le giuste parole. Sappiamo benissimo del sovraccarico informativo in cui ci troviamo, e non serve aggiungere altro, però abbiamo molto da fare per quanto riguarda il ripristino del giusto vocabolario. Le parole possono essere come pietre, possono ferire, possono disorientare. Anche la loro assenza lo può fare. Ecco perché c’è bisogno di trovare “parole consapevoli”, che siano giuste per il contesto in cui si comunica. Parole veritiere, mai banali, però puntuali, vicine, concrete, umane, non sofisticate . Potrà essere difficile riuscire nell’impresa se saremo costretti ancora per qualche tempo a comunicare quasi solo in forma mediata, privi dell’ausilio della voce e delle espressioni del corpo, a rischio costante di fraintendimento. Ma
la lezione che ci insegna questa emergenza è proprio quella di imparare a trovare le parole giuste,
cucite addosso alle situazioni, mai superflue, immagine delle nostre vere intenzioni, grandi canali di pura testimonianza verso interlocutori attenti e desiderosi di ascoltare.
(*) docente di comunicazione Pontificia Università Santa Croce