Franco Nembrini: “Il cambiamento non avverrà magicamente alla fine di questa prova, ma soltanto durante”

La pandemia ha spazzato via tante false certezze e l’orgoglio che in fondo le giustificava e, allo stesso tempo, ha reso evidente che anche in circostanze terribilmente dolorose si può fare esperienza del bene, ci si può stupire della grandezza e della sacralità di tanti rapporti, di tante amicizie, di tante opere. Abbiamo chiesto a Franco Nembrini, insegnante, saggista e pedagogista italiano, di “leggere” i segni di quanto è stato e di quel che sarà. “Il virus ci ha messo di fronte a tutta la fragilità, povertà, a tutto il bisogno di cui è costituito l’uomo – ha spiegato –. Delle due l’una: o ci si arrabbia per la mala sorte e ci si illude di poterne uscire prima o poi, oppure si riconosce con semplicità di cuore la propria dipendenza da Dio e a lui si chiede la Grazia di ricominciare”

“Abbiamo toccato con mano lo smarrimento, la falsità o l’inadeguatezza di cose che ritenevamo essenziali alla vita. In questo senso la pandemia ha spazzato via tante false certezze e l’orgoglio che in fondo le giustificava e allo stesso tempo ha reso evidente che anche in circostanze terribilmente dolorose si può fare esperienza del bene”. Ancora scosso dalla fase uno che ha flagellato senza pietà la sua terra, Franco Nembrini, insegnante, saggista e pedagogista italiano, si prepara anche lui a entrare nella fase due. E come un buon padrone di casa, estrae, per il Sir, dal suo tesoro cose nuove e cose antiche per raccontare il passaggio del Coronavirus che se da una parte ha generato “tanta paura e a tanta confusione”, dall’altra è stata “un’occasione unica per riscoprire il valore della Vocazione cristiana in quanto tale, e perciò del valore della figura del laico nella vita della Chiesa”.

Gesù insegnava ai suoi a “leggere i segni dei tempi”. Come leggere il segno di questa pandemia e questo tempo che abbiamo vissuto?
Cominciamo con un’osservazione che raramente ho sentito in questi giorni, e cioè che se è vero che si tratta di una circostanza eccezionale per un’intera generazione di europei, bisogna anche considerare che le pandemie, la fame, le guerre, le crisi economiche, i grandi sconvolgimenti culturali, sono fenomeni che da sempre accompagnano la vita dell’uomo.Quando ero bambino in primavera si tenevano apposite processioni per invocare da Dio la protezione contro “peste, fame e guerra”.
Eccezionale semmai è il lungo periodo di pace e di benessere economico di cui abbiamo goduto, caso forse unico nella storia. E c’è un modo solo per guardarlo, e anzi è un’unica grande alternativa di fronte alla quale ognuno di noi è chiamato a scegliere. “Ti pongo davanti la vita e la morte”, “Fermatevi e sappiate che io sono Dio” sono questi i due passi della Bibbia che ogni giorno mi sono tornati alla mente in questo periodo.
Il virus ci ha messo di fronte a tutta la fragilità, povertà, a tutto il bisogno di cui è costituito l’uomo. Delle due l’una: o ci si arrabbia per la mala sorte e ci si illude di poterne uscire prima o poi, oppure si riconosce con semplicità di cuore la propria dipendenza da Dio e a lui si chiede la Grazia di ricominciare.

Lei ha vissuto questo tempo osservando tutto da Bergamo, una delle città più devastate dal virus. Quella dei camion militari che portano via le salme sarà una delle immagini che troveremo nei libri di storia. Smarrimento, senso di impotenza: l’epidemia di Covid-19 ha portato via parenti e amici spariti in fredde statistiche. Quale è il suo pensiero?
Come ogni circostanza che Dio permette nella storia, sfida la libertà di ciascuno e ne rivela gli orientamenti più profondi. Il dolore e la fatica sono come una lente di ingrandimento che fa vedere meglio ciò che per ciascuno di noi vale o non vale. Così anche la pandemia si è rivelata una grande occasione per superare la superficialità e la distrazione di tante nostre giornate e ci ha costretti a chiederci che cosa davvero tiene su la vita, che cosa regge l’urto del tempo, “di che speranze il core vai sostentando” come direbbe il mio amico Leopardi. E devo dire che vivere questa strana condizione di inattività e di isolamento proprio qui a Bergamo ha reso la sfida ancora più radicale.
E perciò mi ha messo davanti agli occhi insieme a tanta paura e a tanta confusione, anche tanti spettacoli di eroismo e di santità.
Abbiamo toccato con mano, nello smarrimento di tanti, la falsità o inadeguatezza di cose che ritenevamo essenziali alla vita. In questo senso la pandemia ha spazzato tante false certezze e l’orgoglio che in fondo le giustificava. Nello stesso tempo ha reso evidente che

anche in circostanze terribilmente dolorose si può fare esperienza di un bene inaspettato,

ci si può stupire della grandezza e profondità, mi verrebbe da dire sacralità di tanti rapporti, di tante amicizie, di tante opere. Cioè, alla fine, della grandezza della propria vocazione.

Con tanta fatica siamo arrivati a questa nuova fase. Cosa dobbiamo lasciarci alle spalle e cosa invece non dimenticare?
Durante un servizio in tv un giovane padre di famiglia, reagendo al diffondersi di slogan del tipo “ce la faremo” rispose quasi urlando: “non è vero, non ce la faremo. Perché mio padre è morto e nessuno me lo restituirà”. Ecco, la cosa che temo di più è questa: che si possa pazientare, sopportare, anche con una certa determinazione, questo momento di dolore, illudendosi che si possa star fermi e che la fine del pericolo ci troverà sereni come prima, pronti a ripartire come prima. La temo perché è una terribile menzogna. Le cose che accadono, e a maggior ragione quelle più significative, capaci di ferire nel profondo il cuore dell’uomo, non accadono invano. Nulla sarà più come prima, ma il cambiamento, il tanto auspicato cambiamento in meglio, non avverrà magicamente alla fine della prova, ma può avvenire soltanto durante la prova. È adesso, è nella sfida di questi giorni che si tempra il carattere di un popolo, la forza di un’amicizia, la sicurezza di un amore, la certezza della fede. Questa verifica, vissuta giorno per giorno chiamando le cose con il loro nome, mossi dal desiderio di capire, cioè di conoscere di più la Verità, dal desiderio di amare di più e meglio noi stessi e gli altri, di dare la vita per qualcosa di grande, di utile a sé e al mondo, questo sì ci troverà alla fine migliori. E alle spalle rimarrà l’illusione, in cui forse ci siamo cullati troppo a lungo, di poter essere felici da soli, aspettandoci la felicità da cose che non ce la potevano dare.Se alla fine ci trovassimo tutti un po’ più innamorati della verità e un po’ meno conniventi con la menzogna, scopriremmo che in tutto, anche in un’epidemia, c’è una possibilità di crescita e di maturazione.

Si rientra nel mondo anche da cristiani, dopo una clausura e un’astinenza forzata dalle celebrazioni eucaristiche. Che riflessione fare?
Fin dai primi giorni in cui il Governo ha deciso di non consentire la celebrazione della Messa, ho sentito questa circostanza come una grande occasione per la verifica della mia fede. Certo mi sarei opposto vivacemente ad una decisione che avesse impedito la celebrazione per un lunghissimo periodo. Ma questa stessa impossibilità, sapendo che sarebbe durata poco tempo, mi ha costretto a chiedermi se e quanto fosse importante per me accostarmi alla Santa Comunione. Ma più ancora è stata un’occasione per chiedermi quanto fosse vero nel mio modo di vivere la fede, che il Sacramento è la Chiesa, il corpo di Cristo è il popolo cristiano, e che per vivere questa appartenenza a lui ci sono stati dati 7 Sacramenti. Mai avevo ripreso coscienza in modo così chiaro del valore del Battesimo (il gesto misterioso attraverso cui Cristo ci assimila a Sé) e del valore del Sacramento del Matrimonio attraverso cui, giorno per giorno, sono chiamato a celebrare e a riconoscere questa appartenenza. E infine, come esito di queste considerazioni, una grande riscoperta del valore della Vocazione cristiana in quanto tale, e perciò del valore della figura del laico nella vita della Chiesa. Una buona occasione insomma per riscoprire quel sacerdozio universale dei fedeli di cui parla il Concilio. Lo dico in modo assolutamente non polemico, ma lo dico: che occasione per declericalizzare un pochino la vita delle nostre parrocchie e della Chiesa tutta!

Da qualche giorno è in libreria “Purgatorio” il testo col quale, con parole semplici e le illustrazioni di Gabriele Dell’Otto, avvicina i lettori all’opera di Dante. In fondo il “sommo poeta” nel suo viaggio ci fa capire che il problema non è cadere, ma confidare in una mano che sempre ci viene offerta per poterci rialzare. Possiamo considerare questo tempo come un “purgatorio” e poi, proprio alla luce della sua fatica, in che modo, questa volta, siamo chiamati a rialzarci da questa caduta, ammesso che lo sia.
Non è in questione che ci sia o meno una caduta: la caduta è l’elemento più radicalmente descrittivo della condizione dell’uomo. Siamo tutti peccatori, partecipiamo tutti, sempre della caduta originale. Il problema è rendersene conto e, consapevoli della propria debolezza, decidere a chi dare la vita. Poi si può sempre sbagliare. Mi ha colpito molto il fatto che la pandemia ha avuto il suo apice in Quaresima, durante la Settimana Santa, nella celebrazione della Pasqua.

Questa coincidenza mi ha fatto ricordare che in fondo l’umanità, a partire da quel giorno sul Calvario, non è più divisa tra buoni e cattivi, tra giusti e non giusti. Siamo tutti ladroni. E la decisione che ci salva, e insieme a noi salva il mondo intero, è quella di riconoscere in quell’Uomo crocifisso insieme a noi, – continuamente crocifisso, in tutti i giorni della Storia e in tutte le strade del mondo – il Signore che dà la vita per noi e a cui noi possiamo dare la nostra.
Il Purgatorio è esattamente la descrizione di questa possibilità, è quel che ci rende questa cantica della Divina Commedia così famigliare e così vicina. Perché descrive il cammino degli uomini salvati, cammino duro e faticoso nella lotta al male proprio e del mondo, ma con un’ultima letizia che nasce dalla certezza della sua presenza.

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