Il linguaggio della guerra li liquida come “danni collaterali”, conseguenze direttamente forse non volute, ma comunque dai costi pesanti per la popolazione. La situazione che viviamo non fa eccezione: l’emergenza sanitaria ha subito preso il volto di un’emergenza economica, con ricadute enormi sulle famiglie, a partire da quelle già prima provate dalle difficoltà o al limite della sussistenza. Nell’effetto domino finisce inevitabilmente coinvolta anche la scuola paritaria, alle prese con un’ipoteca che ne compromette la stessa possibilità di riaprire i battenti a settembre. Tutta colpa della pandemia, dunque? Le cose, lo sappiamo, stanno in maniera diversa. La tempesta che sta flagellando il Paese s’è abbattuta su un sistema scolastico che già annaspava sul piano della sostenibilità economica. Molte scuole paritarie sono esposte a debiti accumulati negli anni, a fronte di rette non sufficienti a coprirne i costi; debiti affrontati con passione, dedizione e professionalità, in nome di un progetto educativo e di un programma formativo ai quali si ostinano a non voler rinunciare. Prima ancora, queste scuole soffrono la faziosità con cui sono guardate. A minarne la sopravvivenza è, infatti, una sorta di discriminazione culturale, che impedisce di riconoscere loro piena cittadinanza. Ne porta traccia un vocabolario che ancora le considera “private”, scuole di classe, diplomifici per asini d’oro. Questo pregiudizio ideologico segna un primato, un’eccezione nazionale, che non si riscontra più nemmeno nella laica Europa, dove il muro è caduto e il valore culturale costituito dalle paritarie è riconosciuto e apprezzato. In casa nostra, paradossalmente, non passa nemmeno il criterio dell’investimento: è risaputo che all’anno fanno risparmiare allo Stato oltre 7 mila euro per alunno, per cui la prospettiva di una scomparsa delle scuole paritarie costituirebbe un aggravio di diversi miliardi di euro sul bilancio della collettività. Senza aggiungere che, una volta chiuse, ci si troverà subito ad affrontare la mancanza di servizi con cui supplirle, in termini di strutture, palestre, scuolabus, mense e soprattutto insegnanti. Prima di tornare sull’aspetto economico, forse è importante aver prontezza della partita in gioco: ruota attorno a un’utenza complessiva di circa un milione di persone, se ai 900 mila allievi aggiungiamo i 100 mila dipendenti, ripartiti su 12 mila scuole. Quelle aule sono abitate dalla ricchezza di un presidio educativo unico, che realizza spazi di libertà educativa e sussidiarietà, princìpi essenziali in democrazia. Qui, forse, si arriva a mettere il dito sulla piaga. La volontà, più o meno dichiarata, di ricondurre il percorso scolastico a un monopolio dello Stato, si sposa in pieno con la fatica di quest’ultimo a porre davvero la famiglia al centro delle proprie politiche. Al riguardo, le dichiarazioni di principio si sprecano, senza trovare la modalità per tradursi in misure di sostegno. La famiglia – comunità affettiva ed educativa con le sue risorse e fragilità, le sue ricchezze morali e le sue ferite relazioni – è ancora sistematicamente respinta nella sfera privata, confusa o omologata ad altre forme di convivenza, penalizzata dall’enfasi posta sull’individuo. Anche in questi lunghi mesi non è forse stata la famiglia a portare con dignità e senso civico il carico maggiore? E non sarà ancora proprio la famiglia il principale soggetto che consentirà al Paese di rialzarsi? A prima vista, il filo del discorso sembra essersi allontanato dall’ambito scolastico. In realtà, quello che si chiede al Governo non è un aiuto specifico alle paritarie – che potrebbe essere interpretato come una sorta di privilegio – bensì opportunità e servizi, solidarietà e sviluppo alla famiglia, contribuendo a restituire a quest’ultima la necessaria serenità.
La scuola paritaria non vuole soldi dallo Stato, ma che sia riconosciuta per l’importante servizio pubblico che offre.
In concreto, significa garantire – anche per quanti sono poveri – il diritto alla libertà di scelta educativa dei genitori, il diritto di apprendere da parte dello studente e il diritto alla libertà di insegnamento dei docenti, senza la grave discriminazione economica che si perpetua da troppo tempo. Va in questa direzione l’appello accorato che, in queste settimane, s’è espresso a una sola voce da genitori, religiose e religiosi, vescovi e realtà territoriali, affinché si arrivi a porre un segnale dichiara volontà politica. In questa situazione, forse, sarebbe plausibile anche avviare una riflessione sulla Legge 222/1985. Essa stabilisce che la Chiesa cattolica può usare le somme provenienti dall’otto per mille che i cittadini le destinano per «esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di Paesi del terzo mondo». Anche qui vengono escluse, sulla base di un pregiudizio tardo a morire, le opere educative, accademiche e scientifiche in quanto tali. Laddove “caritativi” fosse integrato con “educativi e formativi”, prevedendo “interventi a favore della comunità”, si potrebbe valutare la possibilità di destinare risorse – quantomeno ad tempus– anche alle scuole paritarie o ad altre istituzioni che si ritengano meritevoli di un sostegno finalizzato al bene comune. Al di là di tutto, vale la pena ricordare che la Chiesa non si muove per difendere semplicemente le proprie opere: forte della sua tradizione educativa, ha a cuore la scuola, la scuola tutta, nella sua complementarietà con la famiglia. Allo Stato chiede di saper riconoscere e sostenere questa collaborazione, che va a beneficio di tutti.
In questa prospettiva, papa Francesco – proprio incontrando il mondo della scuola – ricordava un proverbio africano: “Per educare un figlio ci vuole un villaggio”. E spiegava: “Per educare un ragazzo ci vuole tanta gente: famiglia, insegnanti, personale non docente, professori, tutti!”.
Se su questa via ci si riconosce, è troppo attendersi risposte conseguenti?
(Pubblicato su “Vita Pastorale” di giugno 2020)