Le reazioni dei rifugiati accolti nelle diocesi italiane al lockdown e all’emergenza Coronavirus colpiscono: c’è chi ha sperimentato situazioni ben più dure, come dittature e carceri libiche, e sta dimostrando una capacità di speranza e resilienza fuori dal comune; chi incoraggia e sostiene gli italiani colpiti in prima persona; c’è chi, invece, ha visto sfumare le prime opportunità di autonomia lavorativa. A seguirli passo passo, anche in questa esperienza così difficile ed inedita, è il progetto dell’Università di Notre Dame (Usa) iniziato nel 2018 e che si concluderà nel 2023. La ricerca sta documentando il processo di integrazione di 500 rifugiati accolti tramite i corridoi umanitari della Cei in 45 diocesi italiane. La piattaforma on line “Human lines” racconta le storie dei rifugiati attraverso foto, audio, video, comics e videoanimazione. Durante il primo anno di ricerca sono state condotte oltre 350 interviste e 50 focus group. Il portale ospiterà anche report, articoli accademici e informazioni utili. “Un’esperienza straordinaria che ho voluto comunicare anche attraverso la creazione di un sito e su Facebook”, spiega al Sir Ilaria Schnyder von Wartensee, professore assistente di ricerca Keough School of Global Affairs all’Università di Notre Dame, coordinatrice del progetto. Ha affiancato gli operatori di Caritas italiana e della Comunità di Sant’Egidio già nei campi profughi in Etiopia e si reca in visita nei territori. Il lockdown di questi giorni a causa del Coronavirus entra, di conseguenza, nello studio e nel racconto dell’esperienza.
“Mi ricorda i sei mesi chiusa in casa nel mio Paese”. “Stiamo bene ma un po’ ci annoiamo”, dice Danait, giovane eritrea dalla riccia capigliatura al vento, mediatrice culturale nella diocesi di Trivento, un piccolo paesino del Molise. Dopo essere fuggita dall’Eritrea ha trascorso molti anni ad Addis Abeba, in Etiopia. Ha avuto l’opportunità di venire in Italia insieme alla madre. “Questo periodo – confida Danait – mi ricorda quando nel mio Paese per sei mesi sono stata chiusa in casa senza mai uscire, con la fobia di essere catturata dall’esercito. Ogni giorno era un incubo. Noi che abbiamo vissuto in dittatura sappiamo come rispettare le regole, siamo più abituati a questo tipo di emergenze. Gli italiani un po’ meno. Li vedo abbattuti psicologicamente, perché la situazione è grave”. Perciò Danait si sente di lanciare un incoraggiamento forte: “Coraggio Italia, tu che sei casa non solo del tuo popolo ma di tutti noi rifugiati ricordati che ‘Vatuttvuon’ come si dice qui in Molise, andrà tutto bene”.
“Ho la possibilità di studiare di più”. In Lombardia John Simon, eritreo che ha trascorso 16 anni in Etiopia, è arrivato circa due anni fa, insieme ad altre 139 persone. Ora vive a Fagnano Olona, insieme alla moglie. Confessa che all’inizio l’integrazione è stata molto difficile, “la gente non ci parlava, ci sentivamo isolati, estranei. Così di fatto stavamo sempre chiusi in casa, non abbiamo imparato l’italiano”. Dopo un anno sono stati trasferiti in uno Sprar e si sono trovati bene, hanno frequentato corsi di formazione. “Ora siamo a casa per questa emergenza ma per me non è difficile – afferma -. Sia perché l’ho provato, sia perché in questo modo ho la possibilità di studiare di più”. “Sono rimasto sconvolto da quanto sta accadendo:
l’Italia non se lo meritava, un Paese così accogliente, affettuoso. Spero con tutto il cuore che ne usciremo quanto prima, tutti insieme”.
Le prime difficoltà sono evidenziate invece dagli operatori Caritas in prima linea nei territori. A Ragusa, ad esempio, le famiglie rifugiate con bambini si sono adeguate subito all’emergenza. La Caritas ha distribuito pc, wifi, carte telefoniche per la didattica a distanza. Chiuso il centro d’ascolto, vengono accompagnati in altro modo. “Lo sconvolgimento provocato da questa situazione è drammatico – – spiega Domenico Leggio, direttore di Caritas Ragusa -. Credo che nei prossimi mesi avremo molto lavoro. Perché quando dovevano partire le assunzioni c’è stato il blocco. Questo ci fa fare dieci passi indietro perché le persone erano oramai vicine all’autonomia: un nostro ospite aveva appena iniziato a lavorare in un ristorante che è stato chiuso; un altro ha perso un tirocinio come cameriere”. Leggio è preoccupato perché nel ragusano sta venendo meno anche la rete di solidarietà informale che si era creata tra famiglie locali e migranti. Con la situazione attuale e la mancanza di lavoro aumentano povertà e difficoltà per tutti.
A Brescia, uno dei luoghi più colpiti dal virus. “In questo territorio così malato sono giorni difficili anche per chi sta bene. Abbiamo tanti amici e colleghi che si sono ammalati. E’ una esperienza forte”. Descrive queste giornate con grande commozione Giuditta Serra, operatrice sociale della cooperativa di Caritas Brescia che si occupa di accoglienza. Questo è uno dei luoghi più colpiti dal virus. Nei primi giorni del lockdown gli operatori chiamavano i rifugiati per assicurarsi che rispettassero le regole: “Ora ogni mattina quattro o cinque di loro mi telefonano per chiederci come stiamo, come stanno i nostri genitori e nonni. I nuovi arrivati stanno vivendo con maggiore paura perché è tutto doppiamente nuovo. Ci sono situazioni di fragilità sanitaria che impongono particolare attenzione. Sono giorni tristi ma non ci sentiamo soli”. Dal 2016 ad oggi 3.000 persone hanno avuto la possibilità di entrare in Italia, Francia e Belgio tramite i corridoi umanitari. Una cifra che comprende sia i protocolli promossi dalla Cei, sia dalla Federazione delle Chiese evangeliche in Italia e Tavola valdese.