Se in prima linea nella guerra contro il il Sars-CoV-2 sono certamente gli ospedali, non si può trascurare l’impegno e la fatica con i quali nelle residenze sanitarie per anziani non autosufficienti (Rsa) e in quelle per disabili (Rsd) medici, infermieri, educatori e ausiliari stanno combattendo fin dall’inizio con professionalità e abnegazione, spesso di fronte a scarsità di risorse e strumenti, la battaglia per difendere i loro ospiti dall’epidemia. Realtà sulle quali si sono accesi nelle ultime settimane i riflettori dei media a causa di indagini in corso da parte di alcune Procure, in primis quella di Milano, per l’elevato numero di decessi di anziani registrato in diverse Rsa e case di riposo soprattutto in Lombardia, Veneto, Piemonte e Lazio. Secondo l’Osservatorio dell’Istituto superiore della sanità sulle Rsa, dal primo febbraio al 14 aprile, nelle strutture di tutto il territorio nazionale sono morte 6.773 persone, decessi però non tutti riconducibili a Covid-19.
Prima invisibili e abbandonati, oggi inquisiti. Si potrebbe sintetizzare così lo sfogo amaro dei responsabili di due realtà lombarde sulle quali sta indagando la Procura di Milano, che raccontano al Sir l’impegno quotidiano, nonostante difficoltà e incomprensioni, per curare e tentare di salvare i loro fragilissimi ospiti.
“Di fronte all’esplosione e al rapido precipitare della situazione in Lombardia – esordisce don Enzo Barbante, presidente della Fondazione Don Gnocchi – le scelte operate sono state, comprensibilmente, quelle di concentrare tutti gli sforzi sulle terapie intensive e l’attività svolta dagli ospedali, riempitisi ben oltre le loro capacità iniziali. Ma questo ha fatto passare le nostre realtà in secondo piano:
ci siamo trovati a dover affrontare questo impatto violento sostanzialmente da soli”.
La Fondazione Don Gnocchi conta, tra le sue diverse realtà, 29 strutture residenziali in 9 regioni con 3.700 posti letto accreditati e quasi 6mila tra dipendenti e collaboratori. Tra queste strutture, 7 Rsa e 4 Rsd. Nell’occhio del ciclone il Centro Palazzolo a Milano che accoglie anziani e stati vegetativi, dove Barbante riferisce 150 decessi in due mesi, “ma non tutti dovuti a Covid-19”. Ripercorrendo l’emergenza, “non ci siamo tirati indietro – assicura – salvo fare costanti richieste per avere a disposizione almeno ausili e dispositivi di protezione individuale (Dpi) che la Protezione civile aveva requisito dal mercato. Quello che ricevevamo era enormemente al di sotto del bisogno.
Abbiamo avuto difficoltà anche con i tamponi e ci siamo visti bloccati o sequestrati materiali ricevuti per beneficenza o che eravamo riusciti a procurarci acquistandoli all’estero”.
Sulla stessa linea don Marco Bove, presidente della Fondazione Sacra Famiglia, organizzazione non profit di ispirazione cristiana che accoglie, cura e accompagna bambini, adulti e anziani con fragilità fisiche, psicologiche e sociali. “Anche noi – spiega – abbiamo un fascicolo aperto alla Procura di Milano. Siamo indagati sulle strutture di Cesano Boscone, Settimo milanese e Cocquio Trevisago (Varese)”. “Complessivamente le nostre sedi sono 23 – prevalentemente in Lombardia ma anche in Liguria e Piemonte – con quasi 2000 ospiti residenziali: circa 350 anziani e 1.600 persone con disabilita gravi e gravissime; la principale a Cesano Boscone (Milano) con 700 persone residenti tra anziani e disabili”. Ad oggi, prosegue, “nelle due Rsa e nelle 8 Rsd di Cesano abbiamo avuto 33 persone contagiate e due decedute. Nella sede di Cocquio Trevisago (Varese) sono morte 5 persone, 22 a Settimo milanese”.
Bove ricorda l’appello alle istituzioni, lo scorso 23 marzo, del direttore generale Paolo Pigni per avere tamponi e Dpi. “Comprensibile l’attenzione del ministero della Salute al mondo sanitario, ma il dott. Pigni aveva chiesto di occuparsi anche delle persone più fragili, prevedendo che se l’epidemia avesse sfondato nelle Rsa e nelle Rsd sarebbe stata una Caporetto. Purtroppo è stato profeta”.
Di fronte ad un mercato preso d’assalto in cui tutti cercavano dispositivi certificati e garanzia di consegne in tempi brevi, “non essendo un ospedale pubblico, ci siamo trovati a vedere bloccati alla frontiera tutti i dispositivi che avevamo ordinato all’estero”.
In mancanza di indicazioni e linee guida ministeriali per le Rsa e le Rsd, “che sono state emanate solo il 17 aprile”, puntualizza Bove, già lo scorso 24 febbraio la direzione sanitaria della Sacra Famiglia “ha emesso per le nostre 23 sedi linee guida interne (ieri 22 aprile è uscita la nona edizione): chiusura di centri diurni e ambulatori e stop alle visite dei familiari organizzando la possibilità di videochiamate per consentire ad anziani e disabili di mantenere in tutta sicurezza il contatto con i parenti.Dalla stessa data abbiamo cominciato ad adottare i Dpi che riuscivamo a procurarci e con la consulenza di epidemiologi, pneumologi, cardiologi e geriatri abbiamo elaborato un protocollo, anche dal punto di vista farmacologico, che si sta rivelando l’approccio più corretto”.
Nessuno, assicurano i due responsabili, ha mai impedito al personale di usare le mascherine. “Abbiamo utilizzato i Dpi applicando alla lettera le regole indicate dalle disposizioni ministeriali, dall’Istituto superiore di sanità e dalla regione – spiega Barbante -, invitando i nostri operatori a utilizzare i dispositivi con razionalità e buon senso, ma i membri di una cooperativa – 150 persone sui 670 dipendenti del nostro Centro Palazzolo – hanno fatto una denuncia raccolta da un quotidiano nazionale che senza nemmeno interpellarci è uscito con il titolo ‘non usate le mascherine’’.
Nella fase iniziale, con gli ospedali in affanno, “quando i medici dovevano decidere chi intubare e chi no – aggiunge – se noi chiamavamo il 112 per chiedere il ricovero di nostri pazienti, conosciuta la loro età non li accettavano. L’indicazione, successivamente confermata da una delibera regionale del 30 marzo, poi modificata, diceva in sostanza: se hai un ultra settantacinquenne pluripatologico e positivo te lo devi tenere. Qualche volta siamo riusciti a farli ricoverare, ma nella maggior parte dei casi no. Solo da qualche tempo riusciamo a trasferire in ospedale quelli che hanno sintomi gravi”. Anche Bove racconta di una persona disabile di 68 anni a Settimo milanese, con difficoltà respiratorie, per la quale è stato richiesto ma non è stato possibile il ricovero. “Tre giorni dopo, questa persona è morta”.
Ma le difficoltà riguardano anche il personale. “In alcuni casi abbiamo avuto il 30% e in certi momenti addirittura il 50% della forza lavoro a casa o perché positivi o perché timorosi di contagiare i familiari; a questo si aggiunge che parte del personale ci ha lasciato per trasferirsi negli ospedali”, racconta Bove che parla di
una guerra tra poveri.
Carenza di personale anche alla Don Gnocchi: “Abbiamo difficoltà a fare i tamponi per far rientrare gli operatori rimasti a casa”.
Con riferimento alla contestata delibera regionale dell’8 marzo, che dava la possibilità alle Rsa di ospitare pazienti positivi al coronavirus dimessi dagli ospedali e potrebbe essere la causa dei contagi in queste strutture, Barbante precisa: “Avendo al Palazzolo una struttura che poteva garantire assistenza dal punto di vista respiratorio, ci hanno ‘chiesto’ tra virgolette, e per favore sottolinei il ‘tra virgolette’, di mettere a disposizione posti letto per ospitare pazienti Covid-19. Ne abbiamo accolto qualcuno in uno spazio del tutto separato dalla Rsa, con ingressi e percorsi distinti, ed anche il personale medico, offertosi volontario, era dedicato solo a questi pazienti, senza alcun contatto con gli altri operatori.
Nella Rsa il virus è stato portato da personale probabilmente positivo ma che ha passato il triage perché asintomatico”. Del resto neanche il tampone è una garanzia assoluta: chi oggi risulta negativo domani potrebbe diventare positivo ed è impossibile ripeterlo tutti i giorni.
In tutte le Rsa e Rsd, assicurano i due responsabili, l’attività per proteggere gli ospiti e prendersi cura di loro prosegue in modo serio, professionale e ineccepibile, nonostante turni che possono arrivare anche a 12 ore. Osserva Barbante: “Pur non avendo alcun riconoscimento ufficiale,
i nostri medici e infermieri sono eroi quanto quelli delle strutture ospedaliere”.
E la lotta è anche economica. “Quando tireremo un bilancio alla fine di questa emergenza le perdite saranno enormi”, sostiene Bove. Nonostante questo, per “premiare” gli operatori, prima di Pasqua la direzione della Sacra Famiglia ha previsto di riconoscere per i mesi di marzo, aprile e maggio, 100 euro in più al personale che ha lavorato nei reparti normali, e 250 in più a chi è impegnato nei nuclei infettati.
Intanto, dice, “in una settimana il prezzo dei camici monouso idrodrorepellenti si è triplicato”, mentre
il sociosanitario rimane la Cenerentola della sanità.
“L’investimento della sanità pubblica nel sociosanitario, rispetto al sanitario, è in un rapporto da uno a 10: una disuguaglianza che questa epidemia ha fatto emergere in modo ancora più prepotente”, chiosa il direttore della Sacra Famiglia. precisando che la Fondazione è “una Onlus, non profit, con prezzi accessibili a tutti” e che“non è corretto gettare alla rinfusa come in un gran calderone realtà di privato sociale non profit, di ispirazione cristiana e non, insieme con il privato profit”. E se si sta pensando al dopo 4 maggio – “per proteggere i nostri ospiti dovremmo centellinare la riapertura con estrema prudenza perché la battaglia contro il virus andrà avanti mesi” – nell’attesa che la magistratura faccia luce sui fatti, i due responsabili auspicano un ribaltamento di prospettiva:
“Anziché sentir parlare di quelli che ‘stiamo ammazzando’, vorremmo si parlasse di quelli che stiamo salvando”.