Il destino a volte sembra davvero giocare con i numeri, ignaro, o forse dovremmo dire consapevole, che ci sono date che tragicamente combaciano inchiodandoci a riflettere. Il nome di Carlo Urbani, proprio come il Covid-19, ha fatto il giro del mondo e adesso riecheggia a ricordarci che il tempismo, di fronte alle emergenze sanitarie, può far rima con salvezza. Originario di Castelplanio, in provincia di Ancona, infettivologo, consulente per le malattie parassitarie dell’Organizzazione mondiale della sanità, Urbani dal 1999 ha presieduto la sezione italiana di Medici senza frontiere (Msf) ed è stato il primo a identificare la Sars (Sindrome respiratoria acuta grave), rimanendo lui stesso colpito mortalmente dal morbo, dopo diciannove giorni di isolamento: era il 29 marzo 2003.Come i tanti, tra medici e infermieri, oltre cento, che in questi giorni ricordiamo per aver perso la vita nel soccorrere i malati, anche per Carlo Urbani, l’impegno prioritario era concentrato, fino alla fine, sulla salute altrui: ai colleghi accorsi dalla Germania e dall’Australia, infatti, Carlo Urbani chiese di prelevare i tessuti dei suoi polmoni, ai fini della ricerca. Esattamente diciassette anni dopo, parla al Sir Giuliana Chiorrini, moglie di Carlo Urbani e presidente del comitato di Croce Rossa di Castelplanio, ripercorrendo un dramma che, oggi più che mai, richiama ogni coscienza al ruolo fondamentale che, umanamente prima ancora che professionalmente, il personale sanitario assume in ogni comunità civile.
Torniamo a quel 28 febbraio 2003 quando, in Vietnam, suo marito venne chiamato all’ospedale di Hanoi per un caso sospetto. Quale fu il primo “impatto” con quello che poi si sarebbe rivelato un virus letale?
In particolare in questi giorni il ricordo ritorna a quel periodo. Stessa stagione, stessa dinamica: ad Hanoi l’incubo iniziò a fine febbraio per protrarsi poi fino a fine aprile. Stesse sensazioni, stesse paure. Quando tutto cominciò non ci rendemmo conto che potesse essere così grave: inizialmente era tutto sotto controllo ma con il passare dei giorni la situazione degenerò. La preoccupazione di Carlo aumentava, temeva che l’epidemia potesse dilagare velocemente. In più la stanchezza si faceva sentire e le condizioni di criticità all’interno dell’ospedale non lo facevano stare tranquillo. In particolare, mio marito lamentava il fatto che il Governo locale non lo stesse ascoltando dal momento che lui aveva subito chiesto lo stato d’allerta e pretendeva la chiusura delle frontiere per evitare il contagio. Ricordo che restava in ospedale anche la notte per poter tenere sotto controllo il tutto: ci descriveva la disperazione delle infermiere per il rischio di venire contagiate, il suo timore era quello di non riuscire a fermare l’espansione del virus. Tuttavia, Carlo riusciva a rassicurarci, come del resto ha sempre fatto anche negli ultimi giorni di vita quando, ricoverato, non aveva più nemmeno la forza di parlare. I momenti più difficili sono stati quando è partito per Bangkok e poi si è ammalato. Noi da soli a casa, ad Hanoi, non sapendo delle sue condizioni di salute quotidianamente aspettavamo con ansia la sua telefonata fino a quando non ho deciso di partire, lasciando tornare i nostri figli in Italia mentre io l’ho raggiunto in ospedale. Sono giorni che non vorrei ricordare tanto sono stati dolorosi, li rammento in ogni dettaglio: la permanenza in un Paese sconosciuto, quella strada verso il nosocomio di cui ancora ricordo ogni angolo, con la tristezza e l’angoscia a farmi compagnia.
Ecco perché oggi penso spesso a chi contrae questo terribile male, ne conosco la sofferenza, so cosa si può provare.
Mio marito ha avuto la possibilità di morire non in solitudine, mentre i tanti malati del Coronavirus muoiono in solitudine, senza una persona cara al loro fianco.
Durante il volo verso Bangkok suo marito avvertì i primi sintomi: da esperto, capì immediatamente la situazione e non esitò a fornire indicazioni per contenere il contagio…
Come scrive in questi giorni l’allora rappresentante dell’Oms ad Hanoi Pascale Brudon: “Quando l’11 marzo Carlo è venuto nel mio ufficio al primo piano dell’Oms ad Hanoi, prima di prendere l’aereo per Bangkok, non potevo immaginare che non l’avrei più rivisto e che sarebbe morto due settimane dopo, proprio a causa di quella malattia che lui stesso aveva contribuito a identificare, la Sars…”. Nessuno di noi in realtà pensava di non rivederlo più. Mi aveva salutato la mattina accompagnando i figli a scuola, stava bene, ma forse intuiva il pericolo visto che quel giorno li ha salutati senza baciarli, come era solito fare prima di ogni partenza. Durante il viaggio si è subito reso conto di aver contratto la Sars e, all’arrivo in aeroporto, ha immediatamente allertato i colleghi pregandoli di restare distanti e prendere le dovute precauzioni. Posso immaginare il suo stato d’animo: accorgersi, da medico, di dover soffrire come quelle tante persone che aveva curato nei giorni precedenti… Ogni volta che questa idea terribile torna in mente mi vengono i brividi. Ora penso spesso a tutte quelle persone che si infettano, a tutti quegli operatori sanitari che, più degli altri, sono consapevoli del pericolo a cui vanno incontro e a tutti coloro che non ce la fanno a superare il Covid-19. È un pensiero continuo.
Il mondo sta ora combattendo un virus ancora più devastante della Sars, che miete vittime in cifre impressionanti. Eppure il sacrificio dell’indimenticato medico marchigiano non è stato vano. Quale lezione che ci consegnerà questa pandemia?
Carlo aveva combattuto in tutti i modi la nuova malattia che in quel periodo aveva preso campo in Vietnam. Certamente il suo sacrificio, come tutte le ricerche che aveva fatto, addirittura collaborando all’interno della sua stanza quando era in isolamento con febbre e tosse, consigliando i suoi colleghi su quale terapia utilizzare, hanno permesso di ridurre il danno, anche se sono convinta che all’inizio anche la Sars sia stata sottovalutata. All’epoca, non appena Carlo capì che il paziente di Hong Kong non accusava una banale influenza, mise immediatamente in atto tutte le precauzioni possibili, imponendo una separazione severa dei malati ordinari da quelli che si sospettava fossero stati infettati da questo male sconosciuto. Inoltre, insieme al personale sanitario, attivò pratiche di controllo dell’infezione molto accurate: più visite, mascherine, guanti, guardie davanti alle porte degli ambienti dove erano ricoverati i malati e isolamento dell’ospedale. Insieme all’Oms aveva dichiarato l’allerta mondiale già verso metà marzo. Grazie a tutte queste misure, a fine aprile il Vietnam – primo Paese al mondo – venne dichiarato indenne dalla Sars. Così è nato il protocollo Oms. Così è stata combattuta l’ebola. Probabilmente, non esistono “ricette” valide esattamente per tutte le situazioni. Credo che senza il contributo di Carlo questa pandemia avrebbe potuto mietere ancora molte più vittime. Al contempo, questa emergenza deve insegnarci ad essere più preparati. Le settimane che stiamo affrontando hanno messo in evidenza la distanza fra le varie Nazioni europee, le differenti reazioni, e le ripercussioni si faranno sentire nei prossimi mesi. Non tutta la lezione è stata assorbita come si doveva…
Prima di spirare il dottor Urbani confidò che non era la morte a fargli paura, ma il dispiacere di lasciare i vostri figli, Tommaso, Luca e Maddalena. È anche grazie a loro che oggi il suo ricordo continua ad operare nel segno del bene. Quale messaggio di speranza, anche a nome dell’Associazione italiana Carlo Urbani, vorrebbe rivolgere a tutti gli operatori sanitari impegnati in prima linea?
In questi anni siamo tornati sia in Vietnam che in Taiwan, territori dove la figura di Carlo Urbani ha un’altissima considerazione, perché gli viene riconosciuto il merito di aver salvato la popolazione da una tragedia che poteva essere ancora più grande. Sono loro in verità a meravigliarsi del tepore con cui l’Italia ricorda Carlo. Ecco, l’Aicu (www.aicu.it) intende non solo tenerne accesa la memoria, ma desidera far camminare i suoi progetti.
Nelle fasi urgenti tante persone danno il meglio di sé. Questa è una bella cosa, perché rivela l’animo autentico dell’uomo. Penso, ad esempio, ai medici, agli infermieri e a tutti i soggetti che lavorano nelle strutture sanitarie. Oggi vengono dipinti come eroi della situazione, in molte circostanze, invece, sono oggetto di attacchi gratuiti. Personalmente non li definisco eroi, come non era eroe Carlo: erano, sono e saranno persone che nel momento del bisogno tirano fuori il massimo. Così, mentre c’è chi è costretto a stare a casa e a vivere il proprio “eroismo” fra le quattro mura, il loro stare al fronte anche 14 ore al giorno desta in tutti noi una forte emozione. Sarebbe però importante capire che l’emergenza non è tale solo quando ci colpisce in prima persona e stimola la parte migliore di noi. Purtroppo le emergenze, nel pianeta, sono sempre presenti e la mia famiglia ne sa qualcosa. Quando tutto sarà finito, allora, non smettiamo di preservare quello sguardo attento sulle sofferenze dell’umanità, anche se non ci toccano direttamente.