Il Sabato Santo è il giorno del silenzio e dell’attesa. L’Italia vive, al tempo stesso, il suo Venerdì Santo, giorno dopo giorno, con i suoi malati e i suoi morti di coronavirus, ma anche il suo Sabato Santo di attesa proteso verso la fine di un incubo che non si sa quanto ancora durerà. E mentre il silenzio accompagna il dolore di malati, moribondi e familiari di chi è ricoverato e di chi non ce l’ha fatta, da quando è scoppiata l’epidemia la comunicazione non si è fermata, ma ha avuto una sua evoluzione perché il Covid-19 ha soppiantato qualsiasi altro argomento. Ne parliamo con Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa.
Professore, oggi si parla solo di coronavirus?
Sì, da più di un mese l’epidemia di coronavirus, con i suoi effetti sulla salute, psicologici, sociali, economici, monopolizza completamente le nostre fonti di informazione. Non c’è spazio per altro in tv, radio, giornali, internet: e questo è comprensibile e giusto sia perché è la notizia più importante, sia perché c’è da parte dei fruitori un’attenzione alta all’ultimo dato. Diventa, quindi, estremamente importante dare una comunicazione corretta. Questa è un’occasione per giornalisti e operatori della comunicazione in generale di rilanciare il loro ruolo competente di mediatori, in un contesto di disintermediazione che sembrava ormai completamente acquisito. Oggi vogliamo notizie vere, serie, certificate. Ne abbiamo bisogno perché ne va della nostra salute e ci rendiamo conto che non è vero che un’opinione vale l’altra. Nel caso dell’epidemia ci sono pareri più fondati di altri.
Ma com’è cambiata la comunicazione al tempo del coronavirus?
Sullo sfondo di una opportunità e di una necessità per gli operatori della comunicazione di offrire davvero contributi competenti,
troviamo invece una situazione estremamente variegata.
C’è la comunicazione istituzionale, quella delle 18 con il collegamento con la sede della Protezione civile che viene fatta con una telecamera fissa, sempre lo stesso cerimoniale, lo stesso tipo di inquadratura: tutto questo dà il senso dell’ufficialità del bollettino sulla situazione. Poi, c’è una forma di comunicazione politica che diventa istituzionale, pensiamo al premier Giuseppe Conte, che forse si è accorto di aver un po’ inflazionato la sua presenza con l’interruzione di programmi nei momenti di maggior ascolto e ora ha un po’ diradato questi interventi; e la comunicazione del presidente della Repubblica, cioè comunicazione istituzionale che ha una funzione di rassicurazione, di unità sociale e del Paese allo scopo di ottenere dei risultati ossia il rispetto delle regole necessarie al contenimento del virus.
In tutte le trasmissioni sono ospitati anche medici, ricercatori, scienziati…
È la comunicazione dei cosiddetti esperti, che in alcuni casi si propongono per quello che sono, mentre in altri, soprattutto in alcuni talk show, si fanno un po’ guidare, negativamente, dal format televisivo. Questo non è bene, perché, a vantaggio dello spettacolo, gli esperti vengono messi uno contro l’altro e si crea un effetto di confusione. Ciò è abbastanza ovvio: nessun esperto custodisce la verità indiscussa una volta per tutte sul coronavirus. Purtroppo non sappiamo se è possibile una ricaduta, le modalità del contagio, le distanze sufficienti per evitarlo, se la mascherina serva o meno:
l’esperto dovrebbe dire solo cose verificate e non lasciarsi andare a ipotesi perché fa notizia. Questo è pericoloso per la fiducia che riponiamo in loro.
Ci sono persino esperti che hanno fatto un instant book ma prima di scrivere si dovrebbero avere risposte certe sul Covid-19. Indubbiamente, certe trasmissioni un po’ favoriscono questa forma di protagonismo. Gli invitati non sono più gli uomini di spettacolo. Gli stessi politici si presentano con le mascherine, drammatizzano anche dal punto di vista di presenza scenica e colgono l’occasione per fare polemica e per ottenere una certa visibilità, lanciando proposte che sanno benissimo non adottabili: anche questo non è un bello spettacolo.
E la pubblicità?
Ha cambiato registro.
Innanzitutto, gli spot sono tutti patriottici, se non si arriva a suonare costantemente l’inno di Mameli è perché c’è ancora un po’ di pudore; comunque, per promuovere le categorie merceologiche più disparate, tutte le pubblicità mostrano che le varie aziende stanno lavorando per rifornire l’Italia e che usciremo dall’incubo, ma forse siamo su due piani diversi: da un lato i prodotti, dall’altro l’emergenza e l’unità nazionale. Poi c’è un altro filone di pubblicità legato sempre di più all’entertainment: anche se siamo a casa non tutti hanno voglia o tempo di leggere e si sta molto davanti alla televisione. A questi due tipi di pubblicità, prevalenti, si aggiungono quelle per le quali erano stati già comprati gli spazi pubblicitari che ci fanno vedere il gelato o la bibita che gustiamo in una spiaggia assolata, lontanissima dalla realtà attuale. Questo tipo di spot produce un senso di straniamento assoluto.
E i social? Anche Conte per le sue conferenze stampa utilizza le dirette sulla sua pagina Facebook…
Nell’emergenza i social sono certamente utili, utilizzati e utilizzabili. Fino a poco tempo fa venivano estremizzate le posizioni di coloro che volevano la digitalizzazione per tutto e i contrari che suggerivano di sequestrare gli smartphone ai ragazzi.
Con l’emergenza ci siamo resi conto che il problema è l’alfabetizzazione digitale degli italiani.
Ora facciamo lezioni on line, lavoriamo a distanza, si sono moltiplicati i gruppi e i collegamenti, ma non mi pare che siano aumentati l’autocontrollo e l’autoregolamentazione dei social. La gente continua a metterci tutto quello che riguarda l’intimità casalinga, con un ulteriore decremento del senso del pudore e una spettacolarizzazione della propria intimità.
Dopo l’emergenza che scenari comunicativi avremo?
Io credo molto nella ragionevolezza delle persone. Quella del virus è una prova di verità, è la consapevolezza che ci sono cose vere e altre false e che c’è qualcuno che è in grado in maniera seria di farsi da tramite per comunicare la verità. C’è, però, una tendenza degli esseri umani a dimenticare e a riprendere tutto daccapo come niente fosse stato. Se avvenisse questo, non impareremo nulla dall’emergenza molto dolorosa per tanti. Forse, non vedo nella comunicazione attuale il fatto che per alcuni il sacrificio richiesto è davvero poco – starsene in casa e basta – e l’unico rischio è di ingrassare perché non possono fare footing, mentre per altri c’è il rischio della vita negli ospedali, nel soccorrere le persone, nel portare da mangiare a chi non può uscire di casa, nell’offrire i servizi essenziali. Non credo sia sottolineato a sufficienza che ci siano queste due tipologie di persone, che si devono confrontare e che ognuno può fare la sua parte: ci si limita a fare i soliti patriottici e degli altri ci si dimenticherà facilmente.