C’è sempre un momento, prima o poi, nella vita di ognuno in cui il susseguirsi degli eventi ti impone di fermarti, rallentare il battito cardiaco e ritrovarti solo a pensare.
Sempre.
Questa volta il momento è arrivato per un Paese intero, sotto forma di decreto.
La notizia, come tutte al giorno d’oggi, corre veloce. Ancor di più, se è una di quelle che non vorresti sentire.
C’è chi l’apprende in televisione, chi addirittura ancora dalla radio, strumento per lo più sconosciuto e obsoleto per quelli della mia età (approssimativamente 30 anni), e chi ne viene a conoscenza dai social.
Facebook, Instagram, Twitter, WhatsApp, l’argomento è uno solo, ancora confuso. La certezza, allo stesso modo, è una sola, si deve stare in casa.
E così, come tutti, un’intera fascia di ragazzi si trova a fare i conti con la privazione, senza averne mai avuto fortunatamente consapevolezza.
La generazione Y, Millennial Generation o Net Generation, come viene definita in ambito sociologico.
Quella generazione che ha risentito di più della recente crisi economica e proprio in questi ultimi tempi iniziava a rialzare la testa a suon di lavori precari e corse fino a fine giornata per pagare l’affitto e le spese di casa, togliendosi finalmente l’etichetta di “bamboccioni”.
Una generazione, nonostante tutto, molto innamorata della vita.
E proprio come ogni storia d’amore che finisce, in questi giorni sta vivendo le fasi dell’abbandono.
Dapprima c’è stata la negazione e il dolore, nessuno credeva fosse reale poter rimanere a casa.
Poi la rabbia, il senso di aver subito un’ingiustizia, il non rassegnarsi. E così tutti ci siamo improvvisati sportivi nei parchi delle città. Tutti abbiamo riscoperto il piacere di fare la spesa. All’aperitivo abbiamo sostituito la farmacia.
Ma poi, dati i fatti di cronaca, siamo arrivati alla terza fase: l’accettazione.
Si sta in casa, almeno chi può.
E quindi succede che in pochi giorni quello che per molti di noi è lo strumento più caro – lo smartphone – diventi improvvisamente la cosa meno desiderabile di questo mondo. Migliaia di ragazzi vorrebbero cancellare Instagram, lasciare in casa il telefono e correre in strada ad abbracciarsi, guardarsi negli occhi, litigare, mangiare coi nonni e farsi sgridare dai genitori. Gli affetti più vicini, la famiglia, gli amici, gli amori diventano improvvisamente lontani e ne scopriamo il vero valore.
La prospettiva si inverte.
Lo scontato diventa necessario.
Il normale essenziale.
L’essenziale superfluo.
Poi, però, come nella fine di ogni storia d’amore c’è l’ultima fase: la rinascita.
Ora non so quando ci sarà, ma ci sarà. La speranza è viva. La convinzione ancor di più. Si supererà anche questa prova. I frutti saranno tanti e copiosi e ne godremo insieme, più vicini di prima.
So anche che arriva un momento, e arriva sempre, in cui l’abbrivio degli eventi cambia.
Arriva la svolta, totalmente anticlimatica.
E oggi la svolta è che tutti siamo soli, ma nessuno si sente solo.
Sono le 18 di sabato 14 marzo, a tutti l’insolito silenzio ci impone di pensare, nel mio caso anche di scrivere, di tenere una sorta di “diario dall’isolamento”.
Un sabato particolare, diverso dai soliti.
Ci si organizza come si può.
Qualcuno dalla finestra canta l’Inno nazionale, qualcun altro fischia sventolando il tricolore e batte le mani.
Nessuno va a tempo, ma tutto sommato fanno un piacevole rumore.