Come stare con la ragione desta e con la fede accesa in queste ore? Come fare perché non prevalgano isteria, inimicizia, attrito? Ogni cosa nel mondo è evento, ogni cosa nel mondo avviene per un serie di cause che si perdono e inseguono nel mistero. Così anche questo virus venuto dal cuore di una terra sotto una dittatura comunista – e però mercantile – ha sconvolto la globalizzazione. Da ideale libera circolazione di merci e persone (pur se più dichiarata che reale, mentre libera era la circolazione di beni immateriali che hanno arricchito enormemente alcuni player economici e impoverito altri) siamo ridotti alla chiusura, alla quarantena, al confino.
Qualcuno dice che la globalizzazione stessa è causa del facile spostamento dei virus così come allo stesso modo è motore e ambito delle ricerche dei vaccini che ci salveranno. Si vede però, d’altro canto, che i modi per affrontare la vicenda sono tutt’altro che globali, neanche continentali.
Ma al di là delle disamine generali, delle responsabilità e delle ombre tutt’altro che leggere nella gestione del problema e della emergenza, quel che tocca la vita di tutti nel nostro Paese è una paurosa restrizione della libertà e un sentimento di essere in balia di qualcosa di ignoto e minaccioso.
Si tratta ora di vivere una prova eccezionale.
Le cose vanno chiamate con il loro nome. Questa è una sventura, era meglio, molto meglio che non ci fosse. Fare retorica a basso costo, anche su sentimenti importanti che possono sorgere in queste giornate, come fanno coloro che esultano per la possibilità di “rientrare un po’ in se stessi” e altre banalità simili, è irrispettoso del dolore di molti e della fatica di moltissimi. Così come l’isteria lo è. Occorre misura e rispetto di regole. Ma non basta questo e nemmeno lo slogan “insieme ce la faremo” per interpretare il momento che si vive. Occorre guardare più a fondo.
La consapevolezza della fragilità che stiamo vivendo è un invito a stabilire una coscienza più realista, più acuta e intelligente della nostra umanità. Da secoli un mondo che ritiene di fare a meno di Dio ha costruito – con potenza e tenacia, e con mille metodi dal filosofico all’economico all’intrattenimento – un fantoccio d’uomo che presume di avere nelle proprie mani il destino. Un fantoccio che ha perso la consuetudine, non a caso, con la più realista e primaria delle azioni umane, che è la preghiera. Infatti, la preghiera non è solo l’azione a cui ricorrere nei momenti eccezionali di bisogno, ma una consapevolezza feriale e un’azione semplice in chi ha il cuore ancora umano. Questi secoli di presunzione ci lasciano ora più sgomenti, non più forti. La cultura in cui siamo immersi e che anche in questi giorni emerge, è fondata sulla sola volontà di potenza, e deve censurare o ricoprire di retorica generica la situazione reale delle persone.
Ma quando si è colpiti, e confusi anche per la massa di messaggi e notizie, occorre ascoltare l’essenziale. E per un cristiano l’essenziale è un invito a non avere paura.
Per due motivi che non vanno taciuti: il primo è che la morte non ha più dominio, come dice il poeta Dylan Thomas riecheggiando san Paolo, apostolo della Resurrezione. Non lo ha come orizzonte ultimo dell’esistenza – anche quando la sua ombra si stende presso di noi – e non ce l’ha come interpretazione della esistenza umana. Se infatti tutta questa presunta potenza dell’uomo va in tilt per un virus verrebbe da pensare che la vita sia uno scherzo demente e comportarsi di conseguenza.
Il secondo invito a non avere paura sta nella certezza che Dio non abbandona il suo popolo. E questo si vede se si hanno occhi per vedere. Di certo anche la prova di coraggio che molti stanno dando nel nostro Paese pesca le sue energie in una educazione la cui linfa principale è stata quella cristiana. E sono molti i segni di fede nella nostra gente in queste ore. La prova è grande. Nessuno ne è fuori. Ma questo può indurre, se se ne hanno i motivi interiori, a trattarsi con più gentilezza e con meno supponenza. Infatti il virus di per sé non rende né migliori né peggiori. Viene fuori in tutti quel che sta nel cuore, il meglio o il peggio. La responsabilità di chi è cristiano si chiama speranza, e si tratta di sostenere la speranza di tutti. Una circostanza che come tutte e in modo speciale è una occasione di presenza originale come giudizio e come azione. Ed è una lotta, dura e santa.