“A tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati”. Sono le parole di Elio Germano al Festival del Cinema di Berlino ricevendo l’Orso d’argento per la miglior interpretazione per il film “Volevo nascondermi”. Da Berlino è iniziato così il cammino del film Giorgio Diritti che ora si gioca nell’incontro con il grande pubblico in sala, Coronavirus permettendo. Il film racconta la vita e l’arte del pittore-scultore Antonio “Toni” Ligabue che ha illuminato il panorama culturale italiano nella prima parte del XX secondo, fino alla morte nel 1965. Al cinema l’esistenza tormentata di Ligabue era stata portata da Salvatore Nocita nello sceneggiato Rai del 1977 con Flavio Bucci, scomparso lo scorso febbraio; ora Diritti, un poeta della macchina da presa alla maniera di Ermanno Olmi, è riuscito a mettere a fuoco il mondo pittorico di Ligabue oscillando tra istantanee del passato e suggestioni oniriche, tra pagine graffianti di un’esistenza difficile e un suggestivo valzer denso di colori.
L’universo di Toni Ligabue. “Toni, definito allora e spesso anche oggi come matto – spiega il regista Giorgio Diritti – è stato soprattutto un bambino rifiutato più volte, nato con problemi fisici che lo hanno reso reietto”. Con un continuo uso di flashback, Diritti ci presenta dunque la vita di Toni Ligabue dalla primissima infanzia in Svizzera, dove è nato nel 1899, alla gioventù da solitario nel cuore dell’Emilia, nei boschi fluviali della Bassa padana. Aggirandosi nelle campagne quasi come una figura fiabesca, sgraziata, alla fine Ligabue trova accoglienza presso una famiglia borghese che gli fa scoprire il potere della pittura. Da lì si infrange il guscio di isolamento del suo mondo e attraverso dipinti e sculture filtra il sole nel suo animo, riflettendo così all’esterno una grande luminosità interiore. “I suoi quadri – rimarca Diritti – esprimono uno sguardo particolare sulla vita, la raccontano come una continua lotta per non soccombere e contengono un forte desiderio di riscatto. I suoi autoritratti sono la fotografia del suo stato d’animo e nel suo volto, gli occhi rivolti all’osservatore interrogano, chiedono un ascolto, un riconoscimento, un segno di affetto”.
Il punto Cnvf-Sir. Neanche cinque film e un curriculum artistico rigonfio di premi ed encomi. Giorgio Diritti, bolognese classe 1959, è approdato tardi alla regia del suo primo lungometraggio, “Il vento fa il suo giro” (2005), un piccolo gioiello sull’integrazione e la difesa delle tradizioni culturali. Sono seguiti film sullo stesso binario di realismo e intensità espressiva come “L’uomo che verrà” (2009), sulla strage di Marzabotto, e “Un giorno devi andare” (2012), viaggio fisico e interiore in cerca di risposte. Ora con “Volevo nascondermi” firma forse il suo film più bello e convincente, la piena conferma di una maturità artistica che lo pone tra i grandi autori del nostro cinema a cominciare da Olmi, con richiami anche al cinema contadino di Pupi Avati e per certi versi anche a quello antropologico di Bernardo Bertolucci. “Volevo nascondermi” è un cammino di accesso all’animo complesso e fragile di Toni Ligabue, un uomo vissuto ai margini della famiglia e della società, che ha trovato la sua forma di contatto con il mondo attraverso l’arte. I dipinti di Ligabue, infatti, su tavolette, tele oppure pareti, risultano degli affreschi dell’anima, specchi riflettenti di un disperato bisogno di vita e di amore. Ligabue voleva soprattutto essere notato e accolto. E grazie all’arte è riuscito a far sentire la sua voce, lasciando quindi scoprire al mondo quel giardino fiorito all’interno del suo cuore solitario. Ligabue ha conosciuto sì la gloria negli ultimi anni, persino un riscatto nella sua condizione socio-economica – l’ebbrezza dell’acquisto di una moto rossa fiammante oppure di un cappotto di lana –, ma nel suo animo non è stata mai colmata la sua sete di affetto. E in ultimo una malattia invalidante ha spezzato le sue ali di libertà, ma di certo non il sogno di leggerezza, il desiderio di fuga da quel corpo pesante e goffo.
Merita una menzione speciale il lavoro di Elio Germano, giustamente onorato a Berlino. Germano si è camuffato, anzi si è annullato del tutto all’interno di Ligabue.
Non un mero percorso imitativo né una macchietta, bensì un denudarsi e un rivestirsi rispettoso degli abiti dell’artista, recuperando quel suo bagaglio fisico ed emozionale. Germano è arrivato a perdersi nel mondo del pittore, donandosi con generosità al lavoro di Diritti. “Volevo nascondermi” è un film di elevato spessore e intensità, che esplora la dimensione storica del Paese, quella biografica dell’uomo e quella onirica-artistica del pittore. Un lavoro raffinato ed elegante, di grande profondità; un fotogramma di un cinema che rimanda al passato, non per nostalgia ma per accuratezza. Un’opera che suona anche come una boccata di ossigeno per il nostro cinema, al pari del “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher, ben oltre la solita abbuffata da commedia. E al punto di vista pastorale, “Volevo nascondermi” è da valutare come consigliabile, problematico e adatto senza dubbio per dibattiti.