D’accordo, Sanremo è canzonetta per antonomasia. Una canzonetta che però ha riservato sorprese: ad esempio la presenza di grandi che hanno fatto la storia della musica e non solo. Qualche nome? Louis Armstrong, che ha fatto del suo strumento e della sua voce un simbolo intramontabile, e che ha legato la “negritudine” alla cultura contemporanea, saldandole nella Storia, quella della schiavitù nel sud degli Usa, nella musica, in una letteratura che tra spiritual, gospel, blues e jazz ha fatto nascere vere e proprie poesie. Non è detto che la semplicità e l’immediatezza della denuncia non possano essere anch’esse poesia vera.
È pure vero che la presenza dei grandi ha creato momenti di imbarazzo e, diciamocelo, di autentico panico.
Armstrong, nella sua candida onestà, aveva pensato che quel mega galattico compenso, – 32 milioni di lire del 1968 -, fosse legato ad un concerto vero e proprio e non ad una sola canzone, con il risultato che Pippo Baudo dovette praticamente portarlo via a viva forza dal palcoscenico perché nessuno aveva pensato di informare Zio Satchmo.
Ma se è per questo pure l’esibizione fuori concorso (lo so che pochi ci crederanno, ma Armstrong partecipava alla gara) di Bruce Springsteen del 1996 creò qualche malumore: il cantautore americano volle che la sua apparizione fosse completamente e rigorosamente separata dal resto del festival. Perciò impose le sue condizioni: esibizione rigorosamente dal vivo (molti big dovettero cantare in playback, ivi compresi i Queen di Freddie Mercury, che non la presero molto bene), parole della canzone in sovrapposizione, buio pressoché assoluto, luce assorta di un solo faro e scantonamento al timido tentativo di Baudo di fargli dire qualcosa alla fine dell’esecuzione.
È che Springsteen con Sanremo non c’entrava nulla, e lui lo sapeva bene.
Inoltre quella canzone, “Il fantasma di Tom Joad” non era un motivetto da canticchiare per strada, ma un omaggio al romanzo “Furore” di Steinbeck e una poesia sulla miseria e gli ultimi: “minestra a scaldare sul fuoco sotto il ponte,/la fila per il ricovero che fa il giro dell’isolato:/benvenuti al nuovo ordine mondiale./Famiglie che dormono in macchina nel Sudovest/Né casa né lavoro né sicurezza né pace”. Il lettore avrà capito che per gli organizzatori si trattava di un autogoal in piena regola, anche se poi quell’anno sarebbe stato ricordato – con le opportune omissioni – come l’anno di Springsteen a Sanremo: un apparente bel colpo.
Ma se è per questo anche David Bowie (vi sembrerà impossibile, ma è la pura verità) a Sanremo ci è andato, l’anno dopo, e pure lui ha dovuto sottomettersi alla dura legge del playback, come capitò anche a Sting. Anche uno dei padri putativi della musica con la M maiuscola, Ray Charles è venuto a Sanremo nelle vesti di concorrente, e ci tornerà pure l’anno dopo.
Per fermarci solo agli stranieri, non possiamo dimenticare Madonna, i Depeche Mode, The Smiths, Josè Feliciano (che cantò assieme ai Ricchi e Poveri un tormentone sempreverde come “Che sarà”), Whitney Houston, Elton John e anche Cat Stevens, ora Yusuf Islam, in uno dei suoi classici più amati: “Father and son”. E come non citare gruppi storici del blues britannico come gli Yardbirds, o gli Hollies, o re del rythm’n blues come Wilson Pickett e Stevie Wonder?
Le conclusioni potrebbero essere due, e inconciliabili: Sanremo ha saputo mantenere i contatti con la musica impegnata, oppure Sanremo ha fatto finta di essere impegnata per continuare a fabbricare solo e sempre canzonette. Al lettore l’ardua sentenza.