Quando si parla di prescrizione – e nel dibattito politico di queste settimane se ne parla tantissimo – il pensiero corre ad alcuni casi in cui imputati “eccellenti” sono riusciti a evitare una sentenza sfavorevole grazie alle manovre dilatorie di avvocati abili e spregiudicati, capaci di sfruttare in modo strumentale alcuni meccanismi del processo penale, contando anche sulle difficoltà organizzative dell’amministrazione della giustizia. Esiti di questo tipo provocano reazioni indignate nell’opinione pubblica e sono alla base della cosiddetta “riforma Bonafede” (dal nome del ministro della Giustizia dell’attuale e del precedente governo) secondo cui il calcolo della prescrizione dev’essere sospeso dopo il processo di primo grado. Tale riforma della prescrizione, ora al centro di un duro scontro politico, è stata introdotta attraverso la legge “anticorruzione” approvata dal Parlamento nel dicembre 2018 con il voto dell’allora maggioranza giallo-verde. Ma mentre per il M5S il tema della riduzione/abolizione della prescrizione è stato da sempre un cavallo di battaglia, per la Lega si è trattato di una scelta più problematica, tanto da essere condizionata all’inserimento di una specifica norma che rinviava di un anno l’entrata in vigore della riforma, per avere il tempo di intervenire sulla durata dei processi attraverso una revisione delle procedure. Questa revisione non c’è stata, ma il primo gennaio 2020 è arrivato e il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio è diventato comunque operativo, anche se i suoi effetti si vedranno non prima di qualche anno, dato che esso si applica ai reati commessi d’ora in avanti.
Ma che cosa si intende per prescrizione? In sintesi e semplificando, un reato si prescrive, cioè si estingue, non può essere più perseguito, se non si arriva a una sentenza irrevocabile entro un preciso termine che dev’essere fissato per legge.
Questa è la norma generale. Sono inoltre previste delle eccezioni per alcuni reati gravissimi (appunto “imprescrittibili”) e il termine temporale varia a seconda del tipo di reato. In sé la prescrizione si ispira a un principio importante di civiltà giuridica che la nostra Costituzione esplicita nell’art.111, laddove si esige che venga assicurata la “ragionevole durata” del processo, e che indirettamente viene richiamato anche dall’art. 27, in virtù del quale “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Non è quindi accettabile che un cittadino innocente fino a prova contraria resti imputato per un tempo potenzialmente indefinito. Evidentemente la prescrizione non è l’unico modo per evitare questo esito illiberale, possono essere introdotti altri limiti alla durata dei processi (e questo spiega almeno in parte perché, a parte la Grecia, negli altri Paese europei non esista una prescrizione paragonabile a quella italiana). Ma nella situazione data, il blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado rischia di andare incontro a una bocciatura da parte della Corte costituzionale, come hanno messo in luce autorevoli giuristi ed alcuni alti magistrati. Per esempio il procuratore generale di Milano, Roberto Alfonso, nel corso dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario ha definito la riforma “irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali”. Una valutazione severa che chiama in causa anche un altro aspetto: il blocco è “irragionevole quanto agli scopi” perché non interviene sulle fasi del procedimento in cui la prescrizione incide in misura largamente maggiore.
Circa il 77% dei reati che risultano prescritti (dati del ministero della Giustizia relativi al 2017) si è estinto prima che si arrivasse alla sentenza di primo grado, dunque al di fuori dell’ambito di applicazione della riforma.
È compito della politica – e quindi dei partiti rappresentati in Parlamento – trovare una sintesi che salvaguardi le garanzie costituzionali a tutela della libertà dei cittadini e allo stesso tempo consenta di perseguire i reati con efficacia e tempestività, anche investendo risorse su un settore nevralgico com’è l’amministrazione della giustizia.