“È un circolo vizioso. Il pregiudizio vela gli occhi e fa da schermo a una puntuale conoscenza della realtà; la mancanza di conoscenza alimenta il pregiudizio”. Maurizio Ambrosini, sociologo, docente all’Università degli studi di Milano, spiega così uno dei problemi che ruotano attorno al fenomeno migratorio. Con una serie di cifre e di esempi mostra come la presenza straniera sia sovradimensionata nell’opinione pubblica, alimentando paure, chiusure e atteggiamenti ostili. Oggi arriva nelle librerie, per i tipi di Laterza, il nuovo volume di Ambrosini, intitolato – non a caso – “L’invasione immaginaria”. Dedicato, in particolare, alla figlia Miriam, che da oltre quattro anni è operatrice umanitaria nel Kurdistan iracheno, al servizio di bambini e ragazzi rifugiati.
Professore, occorre dunque andare oltre i luoghi comuni?
Certamente. Più di un’indagine ha mostrato come molte persone ritengano che in Italia gli stranieri siano quasi il 30% della popolazione, mentre siamo attorno al 10%. Ci si immagina che la gran parte degli immigrati giunga dall’Africa, invece sono il 20% degli stranieri, mentre la maggioranza è europea. Raramente si segnala che si tratta soprattutto di donne. Meno ancora si sa della religione: i musulmani nel nostro Paese sono meno di un terzo del complesso degli immigrati: il maggior numero è di fede cristiana. Ma evidentemente fa gioco a qualcuno diffondere false informazioni. Fra l’altro occorre notare come la stessa disinformazione tante volte riguarda persone e organismi che sono impegnati sul fronte dell’accoglienza. I quali cadono nelle medesime analisi “populiste” del fenomeno, che risalgono allo sfruttamento coloniale, alla povertà che genera i flussi migratori… Compreso il fatto che non si dà alle migrazioni alcuna accezione positiva, mentre, a certe condizioni, queste possono essere utili a un’Europa invecchiata. Direi che, in questo senso, il populismo sovranista ha colonizzato le menti.
Comunque lo straniero fa paura…
Non è lo straniero in generale che fa paura, ma lo straniero povero, o ritenuto tale. Magari la persona con la pelle scura, altro elemento di pregiudizio. Mentre la ricchezza… sbianca.
Chi ha paura?
Si ha timore della persona che non si conosce o della quale si ha una conoscenza indiretta, come quella raccontata dalla televisione. E chi guarda la televisione? Soprattutto anziani, casalinghe, disoccupati, chi vive in aree periferiche delle città o dei paesi: esattamente le persone che avvertono insicurezza, dunque più esposte alla paura. Il referendum sulla Brexit inglese, che ha giocato molto sull’invasione degli immigrati, ha avuto maggior successo proprio tra anziani, disoccupati, britannici che vivono in contesti periferici, impoveriti. Non è un caso! Aggiungerei che l’individualismo pessimista degli ultimi decenni, alimentato anche dalla crisi economica, ci fa vedere nell’altro un potenziale nemico. La paura è dentro di noi, generata dalla sfiducia e da un’insicurezza globale. Pensi alle varie manifestazioni contro possibili insediamenti di campi rom o di centri di accoglienza per migranti: ne emerge un modo un po’ paranoico di ricostruire alleanze, contro qualcuno, contro un presunto “nemico”, e si dà forma a un certo “senso di comunità” patologico. Chi, invece, ha modo di incontrare le persone immigrate, di conoscerle – attraverso il lavoro oppure la scuola dei figli o la parrocchia – coltiva un’idea differente dell’immigrato. Le relazioni, direi, facilitano comprensione e attutiscono timori giustificabili.
Nel suo nuovo libro lei scrive: “Le migrazioni servono soprattutto a definire la propria identità politica”. Cosa significa?
Raramente oggi si riesce a cogliere le differenti posizioni dei partiti in materia socio-economica, parlando di banche o di disoccupazione. Invece se lei sente parlare un politico di migrazioni, dopo due minuti capisce da che parte sta. Basti pensare, fuori dall’Italia, a Donald Trump. Il rifiuto dell’immigrato è diventato un vessillo per raccogliere consensi. E, appunto, una bandiera per definire la propria identità.
Una delle tesi che lei sostiene nel volume è, quindi, che la conoscenza del fenomeno è necessaria per governarlo. Giusto?
Sì, bisogna conoscere la realtà basandosi sui dati, sui numeri, sull’osservazione di ciò che ci accade davvero intorno. Senza falsare la verità. Aggiungo: se ci mettiamo a studiare questo fenomeno, scopriamo che non c’è una migrazione, ma tanti volti e “categorie” di migranti: giovani, donne, minori non accompagnati, persone in età da lavoro con una loro professionalità. Ogni elemento di conoscenza può aiutare a governare questo fenomeno ed eventualmente a trarne possibili vantaggi anche per noi. È chiaro, poi, che chi arriva veramente da situazioni di persecuzione, in fuga dalla guerra, dopo aver subito violenze, richiede un’accoglienza differente. Ma qui dobbiamo essere all’altezza della nostra civiltà, dei nostri valori umani e democratici, della nostra Costituzione all’articolo 10, delle Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese. Questa parte di popolazione immigrata, con gravi problematiche alle spalle, comprende però 300mila persone, sui 6 milioni di cittadini stranieri presenti in Italia.
Si parla di integrazione. È possibile?
Ci sono almeno tre componenti dell’integrazione. Quella strutturale, che comprende elementi essenziali come la casa, il lavoro, la scuola, i servizi sanitari. Poi c’è una componente relazionale, che è altrettanto fondamentale, basata sulla rete di amicizie, sulle conoscenze… E poi c’è un aspetto più “personale”, che riguarda la capacità e la volontà di integrare e integrarsi. Ebbene qui c’è un percorso da fare, che dev’essere compiuto certamente dall’immigrato, ma che chiama ugualmente in causa un percorso della comunità che accoglie. Questo incontro – che non avviene mai esattamente a metà strada – genera integrazione, ma ha bisogno di apertura della mente e del cuore.