Il coronavirus e la paura dei cinesi: no al contagio dell’intolleranza

È necessario vigilare, a cominciare da noi stessi, perché questi moti dell’animo non diventino veleni sociali, offrendo un terreno di coltura per atti e comportamenti lesivi del rispetto che si deve a ogni persona umana, in una stagione in cui il pregiudizio e la ricerca ossessiva del capro espiatorio hanno già causato troppi danni

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Gli episodi di intolleranza nei confronti di persone di origine cinese, collegati all’allarme internazionale per il nuovo coronavirus, in Italia sono ancora un numero relativamente esiguo, almeno quelli noti alle cronache. Fermo restando che anche un solo caso sarebbe inaccettabile, c’è da sperare che il diffondersi della psicosi – che non ha nulla a che vedere con le sacrosante misure di prudenza e di prevenzione da mettere in atto a tutti i livelli – non produca un’escalation.

Al di là dei singoli episodi emersi e delle considerazioni degli esperti (che nel nostro Paese non mancano, come si è dimostrato proprio in questi giorni) sugli effettivi rischi di contagio, c’è un sentimento più o meno sottile di diffidenza che si sta facendo largo nell’opinione pubblica, coinvolgendo anche chi non si alimenta ogni istante alla fabbrica delle fake news.

Intendiamoci, la paura è un sentimento umanissimo e sarebbe insensato criminalizzare i timori che insorgono nell’animo di tanti. Però è necessario vigilare, a cominciare da noi stessi, perché questi moti dell’animo non diventino veleni sociali, offrendo un terreno di coltura per atti e comportamenti lesivi del rispetto che si deve a ogni persona umana, in una stagione in cui il pregiudizio e la ricerca ossessiva del capro espiatorio hanno già causato troppi danni.
Torna alla mente un celebre scritto di Alessandro Manzoni, la “Storia della colonna infame”, in cui si racconta del processo contro persone innocenti accusate di essere all’origine della terribile peste che decimò gli abitanti di Milano nel 1630.

I presunti “untori” furono torturati e giustiziati a furor di popolo.

Di fronte a questa tragedia dell’ingiustizia, Manzoni si domanda quali fattori possano aver “soggiogato” la volontà dei giudici al punto da indurli a emettere una sentenza così scellerata: “Se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle”. Parole che rilette in questi giorni – la “Storia” manzoniana è stata pubblicata nel 1842 – fanno venire i brividi e non solo pensando alle vicende del coronavirus. Che per fortuna non è la peste del Seicento. Ma il contagio dell’intolleranza e dell’odio oggi si diffonde molto più velocemente di allora.

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