(da Ušivak) Sahim ha 11 anni e viene dal Pakistan, ma dice di non ricordare da quale città. Grandi occhi neri, come i suoi capelli, si aggira in ciabatte, nonostante il freddo e la neve, nel centro di accoglienza temporanea di Ušivak, vicino a Sarajevo, dove vive, da solo, da poco più di otto mesi. Suo padre è riuscito nel “Game” (il gioco), come viene chiamato da queste parti: il tentativo di attraversare i confini dei Paesi balcanici per cercare, a costo della vita, di entrare in territorio Ue, meta finale, percorrendo sentieri impervi, evitando freddo, fili spinati, animali selvatici, barriere, telecamere termiche, campi minati, droni, polizia, manganelli e formazioni paramilitari. Ora si pensa che sia in Germania. Sahim, invece non ce l’ha fatta: il camion dove il padre lo aveva nascosto per passare clandestinamente il confine croato è stato bloccato dalla polizia di frontiera che, scopertolo, lo ha rispedito a Ušivak. Della madre non si sa molto, “forse è in Francia”, “forse è morta”, dicono gli operatori del campo. Ora Sahim attende che il padre chieda il ricongiungimento familiare per portarlo in Germania. Ma i tempi sono lunghi, prima deve trovare un lavoro, costruirsi una nuova vita e solo allora potrà riabbracciare il figlio. Intanto il piccolo tira calci ad un pallone sgonfio e passa il suo tempo con altri bambini migranti nel ‘Social corner’ del centro, coccolato dai 5 caschi bianchi di Caritas Italiana che svolgono qui il loro servizio civile, tra lezioni di scuola, laboratori manuali, giochi e balli.
Dono di Papa Francesco. Il social corner, avviato nell’ottobre del 2020, è il frutto di una donazione di Papa Francesco che ha deciso così di sostenere alcuni progetti di accoglienza lungo la Rotta Balcanica, quel percorso che dalla Grecia risale la penisola balcanica fino ad arrivare nei paesi Ue. Unica porta per migliaia di migranti per entrare in Europa. Tra questi progetti spiccano i Social Corner di due campi di accoglienza temporanea della Bosnia-Erzegovina, Ušivak (Sarajevo) e Sedra, nella zona di Bihac, al confine con la Croazia. Si tratta di un prefabbricato dentro il quale è stato arredato uno spazio per laboratori e attività manuali, corsi di lingua e giochi. Un luogo dove ogni giorno i volontari distribuiscono tè o caffè caldo.
“Game is over”. Oggi al Social Corner di Ušivak si canta e si balla al ritmo dei tamburi. I volontari di Caritas Bosnia e i caschi bianchi di Caritas Italiana hanno organizzato una festa sia per i più piccoli e le loro famiglie che per i più grandicelli. Poi pizza per tutti. La gradinata in cemento del vecchio teatrino all’aperto, decorata con i colori della pace, si riempie di persone richiamate dalla musica. I tratti dei volti ne rivelano la provenienza, Iran, Afghanistan, Pakistan, Siria, Iraq, Africa e persino da Cuba. “In questo periodo – dice al Sir Gorana Lovric, coordinatrice del Social Corner – ospitiamo circa 200 persone. Il campo di Ušivak è destinato a ricevere famiglie e minori non accompagnati, fino a un totale di 800 persone. Il nostro compito al Social Corner? Accogliere i migranti, aiutarli, rispettando la loro dignità di esseri umani, come ci insegna Papa Francesco. Lo facciamo con gesti semplici, come offrire loro una tazza di tè o di caffè. In questo modo parliamo, condividiamo le loro storie, capiamo ciò di cui hanno bisogno.
Siamo orecchi pronti ad ascoltarli e braccia aperte pronte a stringerli.
Sono persone con storie di povertà e di disperazione alle spalle che non ti chiedono nulla, solo essere ascoltati”. In questi anni di attività al Social Corner, Gorana ha conosciuto tanti giovani. Tutti hanno provato il Game, ma solo qualcuno ce l’ha fatta come il ragazzo iraniano di soli 15 anni, con alle spalle tutta la Rotta Balcanica: dalla Turchia alla Bosnia, passando per Grecia, Albania, Montenegro e Serbia. “Dopo aver sostato qui al campo per oltre un anno aveva deciso di seguire alcuni suoi amici più grandi. Voleva provare il Game. Di lui nessuna notizia per molto tempo. Un giorno una telefonata: ‘Teacher, game is over’, “Maestra, il gioco è finito!”, era il suo modo per dirmi che ce l’aveva fatta, era arrivato in Inghilterra. Ho pianto di gioia. Sono giovani che hanno diritto a vivere con dignità, a un futuro. Quando vedo questi giovani che provano il Game penso a mio fratello, a mio figlio, e piangi. Piangi perché sai quanto sia importante per loro arrivare in Europa, lasciarsi dietro povertà e guerra”.
“Io ero una bambina quando è scoppiata la guerra in Bosnia, nel 1992. Sono sopravvissuta. Ma il loro presente oggi è più pesante del mio passato. Così ci mettiamo nei loro panni e siamo pronti ad aiutarli a riavere la dignità che hanno tolto loro”.
Una vita di inferno. Gorana parla e Sahim continua a tirare calci al pallone mentre si gusta il suo trancio di pizza. È ora di pranzo a Ušivak. Si avvicina un giovane iraniano, Daniel Hozhabri, viene da Teheran. Con i suoi 34 anni è il veterano del centro di Ušivak. Ha voglia di parlare e racconta di essere qui da 4 anni: “sono scappato dal mio Paese senza portare nulla con me, in tasca solo un sogno, la musica. In Iran ci sono tanti problemi che nessuno vuole risolvere. Non c’è libertà, i cittadini vivono sotto dittatura. Da quando poi nel confinante Afghanistan sono tornati i talebani i problemi sono aumentati”. Racconta di aver trascorso 10 anni in diversi Paesi di transito, “muovendomi in gran parte a piedi, con il rischio di essere respinto ogni volta. Una vita di inferno – dice con voce strozzata – ma
non siamo animali, siamo esseri umani. Cerchiamo solo pace e futuro, ne abbiamo diritto”.
Per questo Daniel ha provato tante volte il Game senza riuscire mai ad arrivare alla meta. “Mi hanno sempre preso. L’ultima volta pochi giorni fa. Le guardie di frontiera in Croazia mi hanno fermato e sequestrato il cellulare e il power bank. Me li hanno fatti a pezzi sotto i mei occhi. Eravamo in undici, con noi c’erano anche delle donne con sei bambini piccoli. Ci hanno rispedito tutti a Bihac in Bosnia. Da Bihac poi sono tornato qui a Ušivak”. “Questo campo non è la migliore soluzione ma ci adattiamo” afferma il giovane iraniano che dall’alto dei suoi 4 anni a Ušivak conosce ogni centimetro del campo: “Questa è l’area riservata ai contagiati dal Covid, mentre più in basso ci sono i laboratori di sartoria e il centro clinico”. Gli alloggi sono tutti allineati uno dietro l’altro, le finestre parzialmente oscurate con delle coperte per non far filtrare la luce solare. Un campo di calcetto pieno di buche con porte improvvisate ricavato da un vecchio parcheggio, poco distante un container adibito a palestra. Incontriamo alcuni giovani ospiti intenti a scrivere al cellulare. Uscire da Ušivak per andare a Sarajevo chiede tempo, pertanto preferiscono restare all’interno della struttura. Problemi di lingua e la mancanza di soldi, fanno il resto. Uno di loro è salito sopra una collinetta “perché lì c’è più segnale”, rivela Daniel. La visita termina davanti al suo alloggio: un container con tre letti a castello, una finestra malmessa che lascia passare aria. I pochi effetti personali sparsi sul letto. “Adesso ci vivo da solo, e ho spazio, ma fino a qualche mese fa eravamo in sei. Non ci si poteva muovere”.
“Nonostante tutte le difficoltà continuo a credere nell’umanità e che ci sarà un futuro dignitoso anche per me”.
La voce dell’Oim. Negli ultimi anni la pandemia ha rallentato gli arrivi in Bosnia rendendo più gestibile il flusso dei migranti. “Oggi nei 5 centri di accoglienza temporanea in Bosnia sono ospitate circa 2000 persone – spiega Margherita Vismara, coordinatrice dei programmi Oim (International Organization for Migration) –. La loro permanenza nei campi è varia. A Ušivak, per esempio, il 20% dei migranti si trattiene per sei mesi-un anno, il 20% più di un anno, il restante 60% per meno di sei mesi. Le famiglie attendono di ricongiungersi con i parenti che sono già in Europa, ma le procedure possono essere molto lunghe. Per questo motivo sono in molti a provare il Game. Come Oim cerchiamo di evitare che bambini e donne debbano affrontare camminate notturne in foreste, in terreni pericolosi, in mezzo al freddo e alla neve, per entrare nell’Ue. Questa gente arriva a camminare fino a 20 o 30 km. in una notte portandosi dietro i bambini anche in tenera età. Tante volte si sono smarriti e ci hanno rintracciato al telefono per chiedere aiuto. In alcuni casi Protezione civile e Soccorso alpino sono intervenuti con le moto slitte. Non è facile arrivare anche perché la Croazia non è ancora in Schengen e quindi devono raggiungere la Slovenia”.
In lotta per un sogno. Ne sa qualcosa Mazar Sharif, che il Game lo ha provato diverse volte. “Sono afgano – racconta il giovane ospite – ho frequentato fino alla sesta classe, la prima media. Sono fuggito che ero ancora un bambino, insieme a mia sorella e a suo marito, perché non vedevo un futuro. Nel mio Paese non c’è libertà, non c’è lavoro solo tanta povertà. Con i talebani la situazione è peggiorata: ti entrano in casa e ti portano via, come si fa a vivere così. Sono fuggito prima in Iran per cercare di aiutare la mia famiglia, poi in Turchia e in Grecia dove mi sono separato da mia sorella. Ho proseguito per il Montenegro, la Serbia, fino a qui, in Bosnia. Dalla Grecia alla Bosnia ho camminato. Sono stati tre lunghi anni durante i quali ho cercato di vivere con piccoli lavori, con qualche aiuto da casa. Vorrei andare in Francia, mi piacerebbe studiare”.
“Ricordo sempre quello che mi disse un mio amico, che ora vive in Germania: dobbiamo lottare per il nostro futuro e per realizzare i nostri sogni. È ciò che farò ogni giorno fino a quando avrò la forza”.
Si è fatta sera, Daniel e Mazar rientrano nei loro prefabbricati. Lo stesso fa Sahim ma non prima di aver ripreso il suo pallone sgonfio finito sotto un’auto di un addetto alla sicurezza del campo. Giusto il tempo di salutare i suoi piccoli amici. La partita la finiranno domani. In attesa del prossimo Game…