E’ difficile distinguerli tra gli altri perché spesso si confondono tra gli adulti. Eppure sono oltre duecento, sugli 8.000 migranti bloccati sulla rotta balcanica in Bosnia, i minori che compiono il viaggio da soli, a piedi, per cercare di entrare in Europa tentando il pericoloso “game” alla frontiera. Vengono da Afghanistan, Siria, Iran, Bangladesh, Pakistan, Iraq, hanno tra i 14 e i 17 anni e affrontano sfide e difficoltà disumane, che nessun bambino dovrebbe vivere a quell’età. Sono anche nel famigerato e gelido campo di Lipa, in Bosnia Erzegovina, dove “ufficialmente non ci sono minori ma in realtà sì”. E negli squat (edifici abbandonati) della vicina cittadina di Bihac. Costretti a vivere in tende o in ruderi di case a 10 gradi sotto zero, senza riscaldamento, acqua, tra sporcizia e malattie. Riescono a sopravvivere solo grazie al cibo, alle coperte e ai sacchi a pelo donati dalle organizzazioni umanitarie. Tra queste c’è il Jesuit refugee service (Jrs), il servizio dei gesuiti per i rifugiati. Padre Stanko Perica, croato, è direttore generale del Jrs Europa Sud Est e si muove tra Croazia, Bosnia, Serbia e Kosovo. In questi giorni è a Bihac, in Bosnia: con una ventina di mediatori culturali sono presenti in due campi per migranti e famiglie e distribuiscono aiuti ai ragazzi negli squat. Jrs opera anche a Sarajevo ma il fiore all’occhiello dell’intervento è a Belgrado, in Serbia: una casa di accoglienza per 15 minori migranti soli, mirata all’inserimento in società in maniera legale.
La dura vita negli squat. Di giorno a Bihac i ragazzi camminano per la città insieme agli adulti, la notte tornano negli edifici abbandonati per dormire. “Ieri ho incontrato un gruppo di sedicenni in uno squat, erano quattro in una stanza – racconta padre Perica al Sir – Vivono in una ex casa di riposo, senza finestre e porte, solo muri divisori. Le condizioni sono pessime, è un edificio totalmente aperto, fa molto freddo. Ogni stanza è occupata da un piccolo gruppo di migranti.
Si riscaldano bruciando bottiglie di plastica, dentro c’è fumo denso e odore pessimo. Cucinano su quei fuochi il cibo ricevuto in dono.
Non c’è acqua, non possono lavarsi. Dormono su vecchi materassi o dentro piccole tende”. I ragazzi sono grati degli aiuti ricevuti ma non parlano molto. “Sono consapevoli della situazione e sanno che è difficile trovare una via d’uscita – aggiunge il gesuita -. Giacche, sacchi a pelo e cibo non mancano. Mancano la dignità e una casa normale, la possibilità di fare una doccia, di cambiare i vestiti, di ricevere una assistenza sanitaria legale”. Per fortuna tra i migranti sono stati registrati pochissimi casi di Covid-19.
Aspettano la primavera a Bihac o nei campi a Sarajevo per tentare di nuovo il “game” alla frontiera croata, rischiando violenze, percosse e respingimenti. Il 60% si affida ai trafficanti. A chi paga di più viene promesso l’arrivo in Germania, ai più poveri in Croazia. Il 40% dei migranti vanno a piedi, da soli, nei boschi, tra mille pericoli. “Purtroppo raramente riescono a passare – conferma padre Perica -.
Tornano con ferite serie e raccontano le violazioni subite”.
Nei campi ci sono persone respinte dieci o venti volte, che restano lì anche due o tre anni. Non hanno più soldi per pagare né forza ed energia per tentare di nuovo. I cittadini bosniaci, esasperati dalla situazione, sono oramai ostili ai migranti e non vedono di buon occhio nemmeno i minorenni. Molti pensano che mentano sull’età reale. “Dicono di chiamarsi tutti Mohammed Alì e di avere 16 anni”, questo è il sentire comune. Un problema reale, in assenza di documenti, è infatti la mancanza di sistemi di riconoscimento dell’età anagrafica – in Italia ad esempio è usata la radiografia del polso – che consentirebbe l’attivazione di tutele e protezione specifiche per i minori: “Dovrebbero ricevere cure speciali come i bambini in Occidente”.
Il sogno: una casa per minori soli a Bihac. Il sogno del sacerdote è quello di aprire una o più case per i minori migranti non accompagnati a Bihac, anche se in Bosnia è molto più difficile che in Serbia. “Servirebbe un sostegno finanziario stabile che al momento non abbiamo – dice – ma anche volontà politica”. In quelle zone Jrs non riceve finanziamenti da Stati e Ue: “Cerchiamo sempre donatori privati, ambasciate, organizzazioni ecclesiali”.
Casa “Pedro Arrupe” in Serbia. A Belgrado, invece, il servizio dei gesuiti accoglie da due anni, nella casa “Pedro Arrupe”, fino ad un massimo di 15 minori non accompagnati. Molti si sono separati dai genitori durante il viaggio, altri sono partiti da soli. Questa struttura si prende cura di loro 24 ore su 24. Ci sono operatori sociali, psicologi, mediatori culturali. I ragazzi vanno a scuola, imparano la lingua serba. “La cosa più utile e importante è spiegare dove sono e indirizzarli – spiega padre Perica -. Di solito parenti e amici in Europa li invitano a raggiungerli e continuare ad andare a piedi verso la Bosnia, poi la Croazia e l’Italia. Noi invece consigliamo loro di rimanere in Serbia e trovare una strada legale per ricongiungersi ai familiari.
Cerchiamo di proteggerli in ogni modo. Ma qualcuno abbandona la casa senza dire nulla”.
Ci sono però anche storie di successo. Un ragazzo afgano, con indole artistica, sta frequentando una scuola d’arte. Altri si innamorano, fanno amicizie a scuola e decidono di restare. In Serbia riescono ad avere cure mediche più o meno gratuite, anche se non è facile avere un permesso di soggiorno, bisogna dimostrare di risiedere nel Paese da anni.
I muri dell’Europa. Papa Francesco, nell’Angelus del 7 febbraio, ha rivolto un appello per i minori migranti non accompagnati, soprattutto quelli della rotta balcanica: “Facciamo in modo che a queste creature fragili e indifese non manchino la doverosa cura e canali umanitari preferenziali”. “All’inizio le crisi umanitarie ci toccano, poi diventiamo indifferenti – commenta padre Perica -. Perciò sono di grande valore gli appelli del Papa, perché ci ricordano la realtà. È vergognoso che l’Europa agisca in modo opposto rispetto ai valori europei, di alta cultura. Purtroppo l’Ue sta solo alzando muri”.