Il presidente ungherese Viktor Orban vola a Mosca e incontra Vladimir Putin per discutere dei dettagli sulle proposte per la pace in Ucraina. Un incontro a titolo personale quello di Orban, privo di un mandato europeo, come hanno subito commentato da Bruxelles, e che stona con l’inizio recente del semestre di presidenza ungherese del Consiglio d’Unione europea. La visita arriva in un contesto di cambiamento che si respira oggi nel vecchio continente, così come negli Stati Uniti, dove a novembre sono attese le presidenziali. A sottolinearlo in questa intervista al Sir è Alessandro Politi, direttore della Nato defense college foundation (Ndcf). Per Politi, “L’Unione europea ha finora espresso una linea politica molto coerente di sostegno all’Ucraina, senza però voler considerare che, mentre il sostegno monetario è più semplice, quello militare sta raggiungendo i suoi limiti”. La partita si giocherà in larga parte dopo le elezioni in America, dove sia Donald Trump sia Joe Biden guardano con attenzione alla ricostruzione del proprio Paese e ai rapporti con la Cina.
Direttore, Orban dialoga con Putin. È un passo utile per raggiungere la pace?
È un passo calcolato, sapendo bene che si tratta di un passo individuale. Non è il primo leader europeo che prova da solo a sondare per ottenere da Putin un incontro sul conflitto. È chiaro che dal punto di vista di comunicazione pubblica la polemica è sorta perché la posizione ungherese è sempre stata distante dal resto dell’Europa. Inoltre la visita arriva in un contesto di cambiamento oggi in Europa, così come negli Stati Uniti, dove a novembre sono attese le presidenziali. C’è un articolo dettagliato della testata Politico che rinforza delle idee già uscite dal think tank “Center for Renewing America”, di area trumpiana, in cui si delineano i contorni di una possibile pace in Ucraina e su come potrebbe evolvere la posizione del candidato repubblicano.
Donald Trump non ha mai nascosto di volere con decisione la fine del conflitto.
Trump ha detto che se i russi continuano con l’offensiva aiuterà l’Ucraina ma è allo stesso tempo chiaro che, se Kiev non arriverà al tavolo negoziale, da presidente taglierà gli aiuti. La sua è una posizione simmetrica rispetto ad attori asimmetrici. Trump vuole una pace purché sia, come già è avvenuto in Afghanistan. Quello che sta emergendo è che c’è la tendenza a premere sull’Ucraina nel riconoscere alcune delle conquiste territoriali russe in cambio di un ingresso dell’Ucraina in Europa e di un rinvio sine die dell’ingresso nella Nato.
Putin dice infatti che è pronto a cessare le ostilità se gli ucraini ritireranno le truppe dalle quattro regioni rivendicate dalla Russia e si impegneranno a non entrare nella Nato.
La richiesta di Putin apparentemente lascia nel vago la sorte definitiva dei territori. La loro cessione alla Russia dal punto di vista paneuropeo è irricevibile perché, se passa il principio che i confini si ridisegnano a colpi di cannone, nessuno Stato sarà più al sicuro in Europa. Il problema è fondamentale anche se a volte sfugge in alcune analisi. La richiesta può essere fatta propria da un presidente degli Stati Uniti, ma può avere conseguenze che non facilitano la sicurezza in Europa perché, se Trump vuole un ingaggio selettivo nel vecchio continente, poiché ritiene prioritario il Pacifico, con una Europa così destabilizzata dovrà invece – che lo voglia o no – rinforzare molto la presenza. Ci sono delle linee di continuità fra Trump e Joe Biden: entrambi pensano che la ricostruzione del proprio Paese sia essenziale così come che la Cina sia prioritaria. Di guerre con conseguenti cambi dei confini abbiamo memoria nel passato, ma non è più così dal 1945 ad oggi e nemmeno dopo la guerra in Kosovo, che non può essere equiparata alla conquista della Crimea e del Donbass, perché la sostanza e la modalità sono differenti. Siamo in una situazione in cui anche i russi rischiano di mettere in pericolo la sicurezza delle loro frontiere.
Perché il rischio sarebbe l’uso del nucleare?
Anche solo la minaccia di impiego dell’arma nucleare apre a scenari poco controllabili. Fomentando i nazionalismi in Europa il rischio è far emergere situazioni difficili. Un esempio è la città di Kaliningrad (exclave russa tra Polonia e Lituania, ndr) che i polacchi rivendicano mentre i tedeschi per ora no, nonostante sappiano che fosse stata anche tedesca. Un conto è avere dei nazionalisti senza un precedente politico e geopolitico, in base al quale i confini si modificano sulla punta della baionetta, un altro è avere dei nazionalismi che fanno tornare al 1914. Non credo sia un contesto che interessi ai russi. C’è da dire che la leadership odierna potrebbe avere questa miopia, ma non credo che quella futura voglia trovarsi con un precedente. Appena ci sarà la pace o comunque una lunga tregua fra Mosca e Kiev, non è detto che sarà sempre Putin il mediatore indispensabile della politica del Cremlino. Il suo controllo del potere ha delle visibili crepe, non è perenne o indiviso. Lo sa molto bene e per questo vuole trattare. Quando ha offerto la trattativa, non è stato possibile intavolarla subito anche se si è tentato in parte con la Conferenza di pace in Svizzera, e non si è potuto o voluto includere immediatamente la Russia. È stata persa probabilmente un’occasione, perché è improbabile che prima di novembre i russi vogliano fare un passo avanti. Nel frattempo, gli ucraini rischiano di pagare cara la mancata occasione, visto che al momento non stanno vincendo, possono resistere ma non stanno recuperando territorio.
In finale crede che l’uscita di Orban renda più fragile la posizione dell’Europa?
L’Europa non parte dal presupposto che le politiche nazionali estere siano totalmente subordinate alla linea collettiva poiché c’è uno spazio anche per l’interesse nazionale. L’Unione ha finora espresso una linea politica molto coerente di sostegno all’Ucraina, senza però voler considerare che mentre il sostegno monetario è più semplice, quello militare sta raggiungendo i suoi limiti. I vertici dell’Ue hanno bisogno di vedere quanto sia realistica la continuazione del sostegno bellico europeo insieme a quello americano, che è obbiettivamente più consistente.