Per parlare d’immigrazione con cognizione di causa, bisogna anzitutto spezzare la spessa coltre delle false informazioni e della propaganda allarmistica. Serve un’operazione-verità: non è in corso nessuna invasione.
Molti non sanno per esempio che, nonostante l’aumento degli sbarchi dall’Africa, nel complesso l’immigrazione in Italia è stabile da una dozzina d’anni, intorno ai sei milioni di persone, irregolari compresi. Per di più è in maggioranza femminile, per quasi la metà europea, per tre quinti proveniente da Paesi di tradizione culturale cristiana. Gli africani sono circa il 20%, ma vengono prevalentemente dal Nord-Africa. 2,4 milioni d’immigrati lavorano regolarmente, e anzi lo stesso governo ora dice che non bastano. Rifugiati e richiedenti asilo sono 400mila o poco più, meno del 10% del totale.
Non siamo il campo profughi d’Europa:
nel 2022 su 965mila richieste d’asilo presentate nell’Unione europea, l’Italia ne ha registrate 77mila, contro oltre 200mila in Germania e più di 100mila in Francia e Spagna.
Le rappresentazioni distorte si traducono poi in almeno tre diversi trattamenti politici dei nuovi arrivati. Il primo approccio riguarda i profughi ucraini, a due anni dall’invasione russa. L’Italia, con il governo Draghi, ne ha accolti circa 170mila, senza porre limitazioni numeriche, né vincoli relativi alla loro circolazione, all’accesso al mercato del lavoro, alla fruizione dei vari servizi sanitari, sociali ed educativi. Roma ha applicato una direttiva dell’Ue, ma è rimarchevole il fatto che l’accoglienza non ha suscitato polemiche politiche, né resistenze sociali. Con l’attuale governo è proseguita, senza scosse e senza ripensamenti. Sarebbe difficile sostenere che i profughi ucraini non pesino sul sistema di welfare, eppure – fortunatamente – nessuno ha eccepito.
Il secondo caso scaturisce direttamente dalle disposizioni governative emanate nel 2023. Sono morte in mare persone che fuggivano da guerre e repressioni, e l’esecutivo Meloni ha varato, dopo Cutro, un decreto che prevede 450mila nuovi ingressi di lavoratori in tre anni, coinvolgendo però Paesi diversi da quelli dei naufraghi. Ha in realtà risposto alle pressioni dei datori di lavoro, stretti tra carenza di manodopera e procedure bizantine per i nuovi ingressi, tanto che finora i decreti-flussi sono serviti sostanzialmente a regolarizzare lavoratori irregolari già entrati in Italia.
In coda alla lista compaiono le persone in cerca di asilo, ma non beneficiate dalla cittadinanza ucraina: verso di loro sono previste una serie di misure che mirano a renderne più difficile l’arrivo, più arduo il riconoscimento della protezione internazionale, più agevole il rimpatrio forzato.
Con l’accordo con l’Albania, si è persino inventato, a scopo sostanzialmente propagandistico e con costi elevati, un dirottamento in un Paese terzo. Cauta apertura dunque alle braccia, benevolenza verso i profughi ucraini, porte chiuse verso le persone in fuga da altre guerre e repressioni.
Completa il quadro la criminalizzazione della solidarietà,
con gli impedimenti e le sanzioni a carico delle navi umanitarie che salvano in mare le vite dei naufraghi: una polemica che è arrivata a investire strumentalmente la stessa Chiesa cattolica.
Per i cattolici, spronati da Papa Francesco, è l’ora di una solidarietà contro corrente, forse per la prima volta invisa a molta parte dell’opinione pubblica. Prima di tutto nei fatti: dalle scuole d’italiano nelle parrocchie alle mense dei poveri, dagli ambulatori gratuiti ai doposcuola per i ragazzi, alle strutture messe a disposizione dei rifugiati e richiedenti asilo. È molto, ma non basta. Oltre a soccorrere i più fragili, servirebbero delle famiglie-tutor che a livello locale si “gemellassero” con le famiglie appena arrivate per accompagnarle nel percorso d’integrazione, sull’esempio dei corridoi umanitari.
C’è poi un piano culturale: lì si combatte la battaglia in realtà più difficile. Vanno moltiplicati gli eventi e i canali per trasmettere un messaggio alternativo alle narrazioni tossiche sull’immigrazione. Infine, mentre la Chiesa domanda giustamente libertà di missione in tutto il mondo, va accolta e sostenuta la domanda di riconoscimento e di luoghi di culto da parte degli immigrati che seguono altre fedi. Citando il cardinal Martini, “noi abbiamo una sola scelta, profetica: prenderci a cuore questa realtà, non come un peso in più che dobbiamo sopportare, bensì come un grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere”.
*docente di sociologia delle migrazioni, Università degli Studi di Milano