Il nodo delle candidature delle e dei big politici alle elezioni del 9 giugno sembra essere, finora, l’unico elemento di attenzione in vista dell’appuntamento per il rinnovo dell’Europarlamento. Assemblea che, proprio in relazione al voto, chiuderà sostanzialmente i battenti ad aprile per lasciare spazio alle campagne elettorali: in questi mesi l’attività legislativa dovrà dunque subire una accelerazione per portare a termine gli iter per le leggi europee e i dossier rimasti finora in sospeso.
Basta scorrere l’ordine del giorno della plenaria del Parlamento a Strasburgo del 15-18 gennaio per rendersi conto del tour de force che chiama in causa gli eurodeputati e così pure il Consiglio Ue (dove sono rappresentati i governi dei Paesi membri), l’altra istituzione legislativa nella complessa architettura dell’Unione europea.
Pur considerando la valenza delle candidature e dell’impegno dei partiti verso il 9 giugno, occorre forse domandarsi se il Belpaese nel suo insieme, e il corpo elettorale nello specifico, si sta preparando al voto e con quale consapevolezza.
Anche in considerazione del fatto che il nostro Paese ha più di una vertenza aperta con l’Ue27: basterebbe citare il Patto di stabilità, il Mes, la questione migratoria, le concessioni balneari.
L’Italia, si sa, è stata storicamente uno Stato fondatore della Comunità europea (Cee, ora Ue) e, almeno fino agli anni ’90, un Paese europeista. Poi, progressivamente, i venti euroscettici e i partiti nazionalisti (o, se si svuole, sovranisti) hanno preso il largo. Così oggi, nell’epoca delle sfide globali e dei protagonisti mondiali del calibro di Cina, Usa, Giappone, Corea, Russia, Brasile, Messico, Nigeria, Sudafrica e tanti altri, si corre il rischio di un voto popolare che, in Italia ma anche in altri Paesi europei, premi proprio quelle forze sovraniste che scommettono sul ridimensionamento dell’Europa comunitaria. Il principio cardine della solidarietà, sulla quale si è costruita nel dopoguerra la “casa comune”, potrebbe cedere il passo a chi vuole erigere muri e fili spinati e punta unicamente sulla difesa degli interessi nazionali, senza peraltro avere una adeguata governance statuale, in grado di far fronte alle profonde trasformazioni e pressioni economiche, finanziarie, climatiche, socio-demografiche, migratorie, energetiche e relative alla sicurezza o all’intelligenza artificiale.
L’Ue non è certo la panacea a tutti questi problemi: non può esserlo perché a sua volta necessita di riforme, di un bilancio adeguato, con ulteriori cessioni di competenze da parte dei 27 Paesi membri. D’altro canto non è possibile immaginare che parlamento e governo di Roma (e neppure di Berlino o Parigi o Madrid) siano attrezzati per tener testa al “cambiamento d’epoca” che si registra in questo avvio di nuovo millennio.
In tal senso emerge la necessità di un più ampio confronto in Italia proprio sul tema-Europa. Un percorso di conoscenza e discernimento che possa aiutare i cittadini a recarsi alle urne coscienti della posta in gioco, così da scegliere partiti e candidati non solo sulla base degli slogan sciorinati dai leader o diffusi tramite sponsorizzazioni sui social. Il voto è un momento elettorale “alto”, un appuntamento con la democrazia partecipativa che richiede cittadini informati e protagonisti.
Il voto del 9 giugno appare particolarmente delicato, sia per il futuro dell’Ue (si rafforzerà o subirà i contraccolpi disgregatori dei nazionalismi e dei populismi?) sia per quello dell’Italia. Il nostro domani dipende anche dalla traiettoria che assumerà la stessa Unione europea.