Per la prima volta in 20 anni di potere in Turchia Erdogan costretto al ballottaggio. Nelle elezioni di ieri, infatti, il presidente turco in carica ha ottenuto il 49,4% delle preferenze, rimanendo così sotto la soglia del 50%, mentre il suo avversario, il socialdemocratico Kemal Kiliçdaroglu, si attesta sul 44,96%. Un terzo candidato, il nazionalista Sinan Ogun, ha ottenuto il 5,2% dei consensi diventando così l’ago della bilancia al ballottaggio del prossimo 28 maggio tra Erdogan e Kiliçdaroglu. Con la quasi totalità delle schede scrutinate, l’Alleanza popolare formata dall’Akp di Erdogan e altri partiti di estrema destra e islamisti ottiene la maggioranza con 322 parlamentari su 600, mentre alla coalizione di opposizione ne vanno invece 212. L’Alleanza del lavoro della Libertà, formata dal Partito della Sinistra Verde (Ysp) di orientamento filocurdo e dal Partito dei lavoratori di sinistra, ottiene 66 deputati di cui 62 dello Ysp, che diventa il terzo partito più rappresentato nell’assemblea. Significativa l’affluenza alle urne che ha sfiorato il 90%, maggiore dell’88% raggiunto alle elezioni del 2018: hanno votato, infatti, quasi 61 milioni di turchi, tra cui più di 3,4 milioni di espatriati. Alta affluenza anche nei collegi elettorali del sud-est del paese, la zona devastata dal terremoto del 6 febbraio.
A non essere sorpreso del ballottaggio è Carlo Marsili, ambasciatore di Italia in Turchia dal 2004 al 2010, che in qualche modo capovolge la prospettiva: “Sorprendente – spiega al Sir – è che dopo 20 anni al potere Erdogan riesca ancora ad ottenere dei successi abbastanza consistenti. È vero che è stato costretto ad andare al secondo turno – cosa che può essere considerata un successo dell’Opposizione – però nel contempo ha ottenuto la maggioranza parlamentare che gli consentirebbe una governabilità maggiore. Il punto sarà capire a chi darà il sostegno il terzo incomodo, Sinan Ogun, che vanta il 5,2% di consensi. Al prossimo turno io vedo maggiori possibilità per Erdogan che ha conseguito una mezza vittoria.
Il voto di ieri potrebbe indurre Erdogan a rivedere alcune sue politiche interne così da riportare il consenso attorno alla sua persona ai livelli degli anni scorsi?
Non credo. Nei miei 7 anni trascorsi in Turchia come ambasciatore ho visto e conosciuto bene Erdogan e non è cambiato mai. In realtà aveva un volto più liberale e aperto nei primi anni di Governo anche perché c’era il negoziato in corso per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Poi è andato per la sua strada e credo che proseguirà così, senza cambiamenti, sia sul piano della politica interna che estera. Ci potranno essere alcune concessioni come far entrare la Svezia nella Nato in cambio di qualche gesto da parte svedese. Non credo voglia provocare vere e proprie rotture. Lo stesso vale anche sul piano interno. Erdogan dovrà rispondere ai suoi alleati di coalizione che non sono dei migliori. Tra loro c’è il partito nazionalista estremista e una piccola fazione che invoca la sharia in Turchia che è rappresentata da 3 deputati.
Crede che Stati Uniti e Europa vedano con occhi più favorevoli la vittoria di Kemal Kiliçdaroglu che porterebbe a politiche interne e regionali più allineate all’Occidente?
Penso che una vittoria di Kiliçdaroglu porterebbe dei cambiamenti piuttosto significativi nella politica turca ma non in quella estera caratterizzata dalla particolare collocazione geostrategica del Paese. Anche se al governo, Kiliçdaroglu non potrà cambiare la politica verso la Russia, Paese poco amato sia da Erdogan che da Kiliçdaroglu ma di cui la Turchia ha bisogno per le forniture energetiche, per il turismo, per il gas a prezzi favorevoli. Si tratta in definitiva di una politica obbligata: la Turchia diffida della Russia, Erdogan e Kiliçdaroglu diffidano di Putin, però devono in qualche modo trattarci. Nei confronti dell’Europa Kiliçdaroglu avrebbe probabilmente un atteggiamento meno ostile di quello di Erdogan e più dialogante. Per quanto riguarda il rapporto con gli Usa bisogna ricordare che l’antiamericanismo in Turchia è di casa. Ed è un dato di fatto.
Quanto peso ha avuto nell’esito elettorale il terremoto dello scorso 6 febbraio?
Si pensava che il sisma potesse favorire l’oppositore Kiliçdaroglu. In realtà se guardiamo la mappa del voto si può notare che Kiliçdaroglu ha rivinto, senza guadagnare un voto, nelle sue roccaforti, le province della costa egea e mediterranea dove si era affermato nel voto del 2018. Tutto il sud-est turco a maggioranza curda ha votato compatto per Kiliçdaroglu. Invece l’Anatolia escluse Ankara ed Eskisehir, ha votato per Erdogan. Terremoto ed economia che sembravano dovessero giocare contro Erdogan hanno pesato meno del previsto.
Nei venti anni al potere Erdogan ha posto particolare enfasi sull’Islam e sulla tradizione islamica, sostenendo movimenti islamisti regionali come i Fratelli Musulmani affiliato alla Fratellanza musulmana e i palestinesi di Hamas. Dopo il voto giudica possibile un cambio di direzione turco in questo ambito anche nel tentativo di migliorare le relazioni con Israele?
Il sostegno ai Fratelli Musulmani è già stato in parte rivisto per poter riprendere il dialogo con l’Egitto. Per riaprire quello con Israele Erdogan ha dovuto ridurre il suo atteggiamento pro-palestinesi. Credo che Erdogan voglia continuare su questa linea: mantenere un rapporto con Israele e migliorare le relazioni con Egitto e, aggiungo, anche con la Siria di Assad. Cosa che il suo oppositore Kiliçdaroglu ha già annunciato di voler fare in caso di vittoria.