Di fronte all’ennesima tragedia sulle coste di Crotone, è ripartita la solita litania delle dichiarazioni altisonanti, dei commenti di circostanza, dello scarico di responsabilità, delle speculazioni politiche, anche di parole inaccettabili e del tutto fuori luogo.
Personalmente ho provato vergogna, perché non sopporto più il “dolore gridato”, mi sa troppo del vecchio trucco di piangere e recriminare senza poi fare niente.
Una immigrazione legale è possibile, oltreché urgentemente necessaria. E lo dimostra ancora la stima di questi giorni della necessità di 500.000 lavoratori stranieri per importanti settori del nostro Paese, dal turismo alle costruzioni, dal lavoro stagionale in agricoltura al lavoro di cura.
Gestire i crescenti flussi di profughi che scappano da guerre, disastri e persecuzioni è possibile.
Come abbiamo dimostrato nel caso dei milioni di ucraini che hanno attraversato le frontiere orientali e non sono stati rinchiusi in campi di confinamento, ma accolti in tutta Europa. Certo grazie alla straordinaria generosità di tantissimi, ma anche alla immediata attivazione della clausola di protezione temporanea, mai applicata prima, delle esistenti norme europee. Ed è anche urgente, perché le conseguenze della crisi climatica fanno prevedere almeno 200 milioni di profughi nei prossimi anni.
Già 30 anni fa, il Cese (Comitato economico e sociale dell’Unione europea) formulò un preciso piano, redatto da una sindacalista italiana, per la gestione delle migrazioni. Un piano che metteva insieme le esigenze di tutti, da chi emigra alle legittime attese dei Paesi di origine, transito e destinazione. E poi nel settembre 2015, sull’onda della tragedia di Lampedusa e poi della crisi migratoria del 2015, il Parlamento europeo adottò una importante risoluzione comune (tra i firmatari anche l’attuale presidente Roberta Metsola) che chiedeva una vera riforma del Regolamento di Dublino e la costruzione di un sostanzioso piano per la gestione legale delle migrazioni.
Ma il profondo disaccordo tra gli Stati membri ha continuato a rinviare soluzioni complessive,
preferendo focalizzarsi sulla protezione delle frontiere esterne, sui respingimenti, sulle difficoltà crescenti imposte a chi si occupa di ricerca e salvataggio, sui rimpatri (mai funzionato se non per cifre risibili), sulle condizionalità crescenti ai Paesi di partenza e di transito.
Un approccio che non funziona: la Turchia, che ha ricevuto dall’Ue oltre 6 miliardi di euro in questi anni per non far partire i migranti, è stato il punto di partenza del barcone che dopo giorni di navigazione è naufragato a pochi metri dalla costa calabra.
Anche l’ultimo Vertice europeo dei Capi di Stato e di governo, lo scorso 9 febbraio, ha ulteriormente privilegiato il rafforzamento dell’ottica securitaria, con un numero consistente di Stati membri che richiedono l’esplicito finanziamento di muri e sistemi di respingimento alle frontiere terrestri dell’Unione europea. In mare si sa, i muri non sono possibili e dunque sperando che i Paesi di transito li fermino alla partenza, con maggiori fondi europei, ci si arrende alla prospettiva certa di nuovi naufragi.
Sul tavolo dei governi langue dal 2020 la proposta della Commissione di un Patto per le migrazioni e l’asilo. Avrebbe voluto un accordo quadro la presidenza tedesca, con una leader come Angela Merkel. Non se ne fece nulla. Due anni e mezzo dopo, ci si augura che l’attuale Presidenza di turno svedese del Consiglio Ue possa avanzare perché si trovi un accordo sotto la prossima Presidenza spagnola. La tabella di marcia concordata tra i co-legislatori (Parlamento e Consiglio), e su cui la presidente della Commissione Von der Leyen insiste, comprende ben nove diverse proposte legislative da finalizzare prima delle elezioni europee del 2024, che toccano tutte le materie, comprese la riforma del Regolamento di Dublino. Per l’Eurocamera sono prioritari l’avanzamento su accoglienza, reinsediamento e qualifiche, mentre per il Consiglio più concessioni su impronte digitali, screening, movimenti secondari e rimpatri.
Il giusto richiamo del Quirinale dovrebbe allora vedere uno sforzo straordinario del nostro governo,
assieme ai governi dei Paesi europei mediterranei, per conquistare il consenso dei Paesi più riottosi e convenire finalmente su soluzioni comuni.
Bisogna mettere fine a questa delirante ottica del “problema migratorio” e cominciare a ragionare tutti insieme sulle “opportunità” di governare con civiltà questo fenomeno storico, inevitabilmente crescente, anche perché il vero “pull factor” è l’invecchiamento delle società europee e le crescenti necessità di manodopera. E ricordando che se l’Europa perde la propria “anima” di compassione ragionata, che ha invece dimostrato con l’Ucraina, perde se stessa.
(*) già presidente Comitato economico e sociale Ue