Gli orrori compiuti dall’esercito russo a Kherson e nei villaggi vicini. Non si parla d’altro nel rifugio antiaereo a Mykolaiv. Andriy è autista di tir ed è appena tornato da Snigurivka. “Abbiamo portato aiuti umanitari, generatori, coperte. La gente è rimasta senza cibo, acqua, elettricità per 9 mesi. Ci sono anche bambini. È stato un miracolo che i russi siano andati via ed è stato un miracolo che queste persone siano sopravvissute in quelle condizioni”. Andriy fa vedere le immagini video girate con il telefonino. Strade sterrate dove attorno si vedono case rase al suolo, tetti sventrati, muri segnati dai colpi di mortaio. “Se ne sono andati via così, da un giorno all’altro, senza dire nulla. Dove sono passati, hanno lasciato terre completamente distrutte”. Si dice che la gente per la fame abbia addirittura mangiato i cani.
La vita nel rifugio scorre così. Le notizie rimbalzano. Così come le foto e i video girati. Colpiscono le immagini delle case trivellate dagli “Himars”, micidiali bombe di ultimissima generazione che riescono a puntare l’obiettivo con la massima precisione. Quando esplodono partono 12 mila pallini in tutte le direzione che distruggono e uccidono tutto. Fa freddo a Mykolaiv. È un freddo umido che ti entra nelle ossa. Le strade sono deserte ma rispetto a due mesi fa si vedono meno militari e mezzi corazzati in giro. All’angolo di una piazza una folla di persone si è messa in fila . Distribuiscono non solo pacchi con cibo e beni di prima necessità ma anche pasti e bevande calde. Ad aspettare il proprio turno sono praticamente solo anziani. Uomini e donne stretti dentro un giubbotto pesante e cappello e guanti di lana per ripararsi dal freddo. È il segno di una città svuotata di giovani. Gli allarmi anti aerei suonano soprattutto dalla mezzanotte alle due.
Ma la relativa calma che si respira per strada di giorno è solo apparente. “Non siamo tranquilli”, dice un uomo che ci accompagna per un giro in città. “Anche se i russi se ne sono andati, siamo sicuri che ce la faranno pagare tenendoci sotto pressione”. I segni della guerra sono visibili e purtroppo recenti. La scorsa settimana un missile ha centrato in pieno un liceo. Si vede l’androne con le scale che portavano alle classi. Tra le macerie si scorgono chiaramente le bacheche con gli avvisi e forse con gli orari delle lezioni e dei ricevimenti. Vite spazzate via e ridotte in polvere e pietre. Dieci giorni fa hanno colpito un edificio residenziale dove hanno estratto i corpi di un bambino e dei suoi genitori. In un altro complesso le vittime sono state molte di più. Dal palazzo sventrato si vede chiaramente un salotto con una libreria piena di libri che ora si affacciano sul vuoto. La guerra è così: spezza la quotidianità.
Maria ha 16 anni. Frequenta l’ultimo anno di liceo. Dice di non sapere ancora quale facoltà sceglierà. “Non riesco e faccio fatica ad immaginare qui e ora il futuro”, confida. Continua a fare le lezioni online. Ma della sua classe sono rimaste solo in due a Mykolaiv. Il resto dei suoi compagni è fuggito all’estero. Quando le si chiede cosa le manca di più non risponde. Ricorda però benissimo giorno in cui è scoppiata la guerra. Dice che è stato il giorno più brutto della sua vita. Quando è suonata la sveglia per andare a scuola avevo sonno così ho spostato la suoneria in avanti di 5 minuti. Mi sono riaddormentata ma a svegliarmi sono le esplosioni delle bombe. In quei 5 minuti sono passata dalla normalità di una mattinata di scuola all’orrore della guerra. Quei cinque minuti hanno cambiato per sempre la mia vita. Ho pianto. Ma era più che altro una reazione isterica perché non sapevo cosa fare e non capivo cosa stava succedendo. Ma da allora non ho pianto più”.