Due carovane della pace in partenza per Odessa, Ucraina. La prima partirà il 24 giugno e tornerà in Italia il 27 giugno. La seconda sarà dal 14 al 18 luglio. A mettersi in viaggio, pulmini riempiti per metà di aiuti umanitari e per metà di persone. A promuovere la straordinaria operazione di pace è il Coordinamento #Stopthewarnow, una rete di oltre 175 associazioni, movimenti e enti italiani. Ci sono i focolarini, il Gruppo Abele, Mani Tese, Nuovi Orizzonti, Un ponte per, solo per citarne alcuni. L’iniziativa è coordinata da una cabina di regia composta dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, da Pro Civitate Christiana e dalle reti nazionali Focsiv, Aoi, Rete italiana Pace e Disarmo, Libera contro le mafie. Perché una carovana della pace a Odessa? A rispondere è Alberto Capannini, responsabile di Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Sarà l’occasione – dice – per dire, non a parole e non dall’Italia ma sulla terra Ucraina, che nessuno ha il diritto di fare la guerra, di sparare sui civili e di decidere chi vive e chi muore. E per dire che nessuno ha diritto di bloccare i porti e l’esportazione del grano per affamare il mondo. Noi crediamo che la popolazione civile non debba stare in silenzio e rimanere a casa. Per questo alcuni di noi, dall’inizio della guerra, hanno scelto di partire e venire a vivere stabilmente qui in Ucraina e portare aiuti umanitari indispensabili per la sopravvivenza della popolazione locale. E quando le persone ci incontrano, ci dicono: ‘Non vi siete dimenticati di noi’”.
Alberto Capannini è a Odessa da due settimane per organizzare, insieme ad un gruppo, l’iniziativa. I partecipanti alla prima carovana del 24 giugno avranno l’opportunità di incontrare i rappresentanti delle Chiese locali che sono impegnate in prima linea negli aiuti agli sfollati. In città si contano 20mila persone fuggite da tutte le zone in guerra della costa. Poi si andrà a Mykolaïv, città sul fronte, dove le persone vivono solo grazie agli aiuti e al trasporto di acqua potabile. Il 24 giugno dall’Italia partiranno circa una quindicina di pulmini carichi per metà di persone e per metà di aiuti, più 1 o 2 tir. “L’obiettivo – spiega Capannini – è non portare solamente aiuti ma persone perché vogliamo creare i presupposti di una solidarietà che possa continuare anche dopo attivando canali di accoglienza in caso di necessità”. È successo ad aprile, quando la prima carovana della pace che arrivò a Leopoli, riportò al sicuro in Italia oltre 300 profughi, tra cui donne, bambini, anziani e disabili.
Capannini è appena tornato da un sopralluogo a Mykolaïv. “È una città sotto assedio”, racconta, “bombardata ogni giorno, con colpi di artiglieria e bombe che cadono casualmente, ovunque. Non c’è acqua potabile che viene portata con i camion da Odessa. A soli 20 chilometri, c’è il fronte dove si combatte”. Qui le persone hanno paura di fare la fine di Mariupol e si stanno organizzando, scavando addirittura dei cunicoli sotterranei in vista di una fuga e di un riparo. Per fortuna, gli ospedali funzionano e i collegamenti con Odessa ancora ci sono. “Quindi per ora l’assedio non è completo e speriamo non lo diventi mai”, osserva Capannini. Molti se ne sono andati. Si calcola che l’80% dei bambini hanno lasciato la città con le loro mamme. Ciò nonostante, Mykolaïv continua a vivere. C’è chi si ingegna a scavare pozzi per trovare l’acqua ma servono dei “desalinizzatori” per renderla potabile, perché, essendo una regione sul mare, l’acqua, che viene spalata, è salata. “Si continua quindi a reagire pur nella paura e nella incertezza, sapendo che i russi possono arrivare”, dice Capannini. “Ma se arrivano qui i russi, il passo immediatamente successivo è Odessa. Dopo di che l’Ucraina perde ogni accesso al mare e a quel punto perderebbe tutto”.
“Questa è la situazione anche se il morale è quello di persone che tengono duro”, racconta il rappresentante della Giovanni XXIII. “Se si chiede quando pensano che le scuole apriranno o quando le mogli torneranno, loro rispondono sempre: ‘Dopo la vittoria’. Non sono d’accordo con la risposta militare ma posso capire benissimo che, di fronte alla prospettiva di tornare – come dicono loro – indietro di 30 anni e vivere sotto un regime di dittatura, queste persone sono disposte a tutto, anche a morire”. “Non mi sono mai trovato in difficoltà a parlare e proporre la pace in contesti di guerra”, confida il responsabile di “Operazione Colomba”. “La questione in realtà è un’altra”, aggiunge subito. “Non si tratta di andare nei contesti di guerra per ‘parlare’ di pace. Si va in questi posti per provare a salvare la vita delle persone. La pace non è un concetto. La pace è vita. Non ci può essere la pace con la gente che muore”.