Nella comunità di Kielpin, municipalità di Lomianki, alle porte di Varsavia, sono circa 1500 i profughi attualmente accolti, per la stragrande maggioranza da parte di famiglie. Sono solo una piccola goccia dei 300mila ucraini che, stando a quando dichiarato dal sindaco Rafał Trzaskowski, sono stati registrati nell’area metropolitana, ma la loro storia racconta molto di una quotidianità che sta cambiando il volto della capitale polacca. A raccontare al Sir la quotidianità di una delle tante cittadine che costellano la cintura urbana di Varsavia è padre Luca Bovio, provinciale dei missionari della Consolata in Polonia: “Il numero dei profughi potrebbe essere ben più alto, ma c’è un limite che è fisico. Non è questione di volontà, ma a Kielpin non c’è davvero più spazio. Pochi giorni fa ho fatto visita ad una famiglia e in quel momento, nella loro casa, erano accolte dodici persone”.
In queste prime cinque settimane di guerra Varsavia è diventata una delle mete privilegiate da chi fugge dai bombardamenti. “Non è solo una questione di attrattività della capitale o di mera logistica, pensiamo in particolare al treno che collega Varsavia con Leopoli – spiega padre Luca – ma è anche una questione di servizi: a Varsavia hanno sede le ambasciate e sono in tanti a venire qui nel tentativo di ottenere un visto per raggiungere parenti o amici negli Stati Uniti o in altri Paesi fuori dall’Europa”.
Speranze alimentate dalle dichiarazioni del presidente americano Biden che, durante la sua visita in Polonia, ha annunciato la decisione di accogliere negli Stati Uniti centomila profughi.
“Fin dai primi giorni di guerra i numeri sono in costante crescita e la città, nonostante la grande mobilitazione istituzionale e popolare, è sotto pressione. Questo è un dato di fatto, è inutile negarlo”, confida padre Luca. Ma, nonostante questo, c’è un elemento che padre Bovio non manca di sottolineare: “Il governo polacco fin dalle prime ore dell’emergenza ha risposto attivando una rete di strutture di accoglienza in tutto il Paese: palazzetti, palestre, scuole, edifici pubblici hanno aperto le loro porte ai profughi. Eppure i posti disponibili sono ancora molti perché la stragrande maggioranza delle persone ha trovato ospitalità nelle famiglie. Un’accoglienza sicuramente più calda e umana”.
È proprio a queste famiglie che la comunità dei missionari della Consolata di Kielpini cerca di dare il proprio sostegno in collaborazione con la parrocchia Santa Margherita dove è stato allestito un grande centro di distribuzione.
“Il lavoro è davvero frenetico – continua il missionario – perché sono circa 400 le famiglie che vengono al centro per rifornirsi di generi di prima necessità: pane, zucchero, olio, marmellate, latte, cibo in scatola. Molti dei generi alimentari distribuiti vengono acquistati in loco, altri arrivano grazie alla generosità di tante persone che dall’Italia stanno organizzando viaggi per portare generi di prima necessità. I pulmini viaggiano pieni di cibo verso la Polonia e, in alcuni casi, ritornano in Italia portando persone che hanno la necessità di raggiungere parenti o familiari disposti ad accoglierli”. Una catena della solidarietà che collega questa piccola comunità alle porte di Varsavia a diversi luoghi d’Italia.
“La solidarietà sperimentata in queste settimane è davvero sorprendente, ma siamo consapevoli di come
la vera sfida non sia tanto quella di accogliere oggi, ma resistere nel tempo,
soprattutto non sapendo quale piega potrà prendere questa terribile guerra: la maggior parte dei profughi si è ferma in Polonia perché spera di poter tornare presto in patria, ma questo dipenderà dalla durata del conflitto e dalle sue conseguenze”.
Il religioso racconta di un uomo accolto nella propria casa. È uno dei pochi uomini riusciti ad uscire con il proprio figlio dal Paese. “È arrivato alla frontiera con un figlio di nove anni nei primi giorni di guerra. La moglie è rimasta nel Donbass per assistere l’anziana madre che era impossibilitata a viaggiare. Le guardie di confine hanno compreso la situazione e l’hanno lasciato passare. Vorrebbero andare in America dove hanno dei parenti”.
È per tutti loro che i missionari e i volontari, con la loro vicinanza, provano ad essere una piccola luce: “Oltre agli aiuti materiali è questo a cui siamo chiamati come missionari: portare una parola di speranza a chi fugge dalle barbarie della guerra”.