Fino all’alba allo scorso 24 febbraio, per quanto da settimane crescesse la preoccupazione per le tensioni tra Ucraina e Russia, per noi europei occidentali e per buona parte dei nostri decisori politici, una guerra di invasione nel cuore del continente europea sembrava un rischio remoto. La pace, che il processo di costruzione dell’Unione europea ci ha assicurato per decenni, era così consolidata da farci ritenere che fosse una condizione irreversibile. Una pace che l’autoreferenzialità, che spesso ci porta a ritenere di essere il centro del mondo, pensavamo fosse universale, tanto da considerarci non solo un continente pacificato, ma financo pacificatore. Le tantissime guerre che invece si continuano a combattere in quasi tutti i continenti ci apparivano distanti e marginali, anche se in molti di questi conflitti ad uccidere erano armi fabbricate in Europa. Di queste guerre avvertivamo come conseguenze fastidiose soltanto gli arrivi di profughi disperati che in taluni casi ci si affrettava a definire come migranti economici, per allontanare da noi qualsiasi obbligo morale di accoglienza e aiuto.
Il risveglio è stato traumatico e la guerra di Vladimir Putin, scatenata dopo due anni di pandemia, non solo cambia il mondo, ma sta cambiando tutto nell’Unione europea non solo sul piano delle strategie geopolitiche, sulle dinamiche delle alleanze, sulle strategie industriali, economiche e sociali ma anche sulla percezione identitaria degli europei le cui conseguenze saranno profonde, spesso imprevedibili e probabilmente determinanti anche nel riassetto delle relazioni tra gli stessi Paese dell’Unione europea.
Mentre i carri armati russi passavano il confine con l’Ucraina, a Bruxelles si stavano preparando i lavori per uscire dalla gestione straordinaria del post-pandemia, facendo gradualmente rientrare i provvedimenti con cui si era derogato ai patti di stabilità, si erano allentate le regole sugli aiuti di stato, ritardate le norme per l’unione bancaria, mantenute le politiche monetarie espansive della Banca centrale europea. Nel giro di poche ore la Commissione europea ha dovuto rivedere le linee per la politica economica sulle quali avviare un percorso per la riforma delle regole fiscali, anche alla luce della ripresa economica che nel 2021 si era accesa con una straordinaria reazione al crollo del 2020, potevano far pensare a condizioni più favorevoli allo sviluppo di politiche fiscali europee più flessibili e solidali, che in ogni caso si preparavano ad un ritorno alla “normalità” economica che la guerra allontana definitivamente.
La guerra in corso in Ucraina provocherà un’ulteriore crescita dei prezzi dell’energia e delle materie prime, in particolare grano e cereali, ma anche fertilizzanti che faranno crescere il prezzo dei prodotti agricoli e quindi di tutti gli alimenti. Questo tipo di rincari provocherà impatti pesanti in particolare sulle fasce più povere della popolazione europea, per le quali cibo, utenze domestiche e carburante incidono fortemente sui bilanci familiari.
L’Unione europea si trova quindi davanti ad una sfida enorme per contenere le conseguenze economiche della guerra in Ucraina che appaiono via via sempre più pesanti, e in ogni caso espongono a una straordinaria incertezza, la quale si abbatte in un contesto in cui la crisi delle filiere di approvvigionamento, l’impennata dei costi nel settore energetico stavano già provocando un aumento generalizzato dei prezzi di tutti i beni e i servizi.
Pesanti rischiano di essere anche le conseguenze sul sistema monetario e finanziario, poiché le (indispensabili) sanzioni internazionali al sistema bancario russo, con l’esclusione di alcune banche dal sistema Swift, interrompe il sistema di pagamenti con conseguente rischio che vi siano dei blocchi nella produzione per le imprese che esportavano in Russia.
Questi impatti economici negativi sono il prezzo che paghiamo alla guerra e sono ben poca cosa rispetto alla devastazione e alle perdite di vite umane provocate sul terreno. Ma altri impatti negativi profondi si aggiungeranno poiché alle conseguenze economiche si aggiungeranno le conseguenze sociali e culturali; non solo per l’impoverimento che si accompagna ad ogni guerra, ma per il deterioramento delle relazioni tra le persone, già provate da due anni di tensioni causate dalla pandemia, per la crescita dei sentimenti di sfiducia diffusa, per la deprivazione delle aspettative di un futuro di progresso per le giovani generazioni.
Sul piano culturale riscontriamo lo sdoganamento delle narrative guerrafondaie, il linguaggio intriso di retoriche fondate sul noi contro loro, la semplificazione con cui si stanno generalizzano e confondendo i giudizi sul governo russo e su Putin (che sono i veri aggressori) e sul popolo russo, la sua cultura e la sua storia. La narrativa di guerra che per due anni si era esercitata nelle cronache sulla pandemia si confronta ora con una guerra oscena di fronte alla quale l’Unione europea è disorientata e disarmata (non soltanto in senso letterale, come noto) e per quanto abbia saputo reagire con decisione introducendo rapidamente sanzioni e aiuti all’Ucraina, non è in nessun caso riuscita a fare la differenza, sul piano politico, mettendo in primo piano quello che è stato il più grande e spesso trascurato risultato politico della sua storia: il linguaggio della pacificazione, che ha repentinamente lasciato il campo alle retoriche di guerra.
Ora più che mai, mentre a decidere sono purtroppo le armi, serve un sovrappiù di politica e di impegno sociale anzitutto per organizzare la solidarietà e l’aiuto alle vittime della guerra: la macchina dell’accoglienza si sta mettendo in moto rapidamente. Ma insieme alla risposta di aiuto dobbiamo cogliere l’occasione per ridefinire come Unione europea i contenuti e il valore di una adeguata cultura dell’accoglienza. La guerra ormai entrata violentemente nella quotidianità europea e le conseguenze saranno pesanti e durature e colpiranno tutti i cittadini europei in ambito economico. In queste ore il susseguirsi di rialzi spaventosi dei costi dell’energia ci danno già la misura di come alle vittime della guerra si aggiungeranno le vittime di un impatto economico che ha già profondamente cambiato tutte le previsioni per i prossimi mesi.
Gli investimenti necessari alla cosiddetta “doppia transizione”, climatica e digitale, su cui la Commissione stimava di investire 650 miliardi l’anno, anche per affrontare il contrasto al cambiamento climatico e raggiungere una sostenibilità ambientale, dovranno fare i conti con la crisi energetica da un lato e con la scelta di destinare risorse agli armamenti dall’altro.
In questa dinamica il rischio che a farne le spese siano gli investimenti per la coesione sociale, per il welfare e il rafforzamento del sistema sanitario europeo è altissimo e di conseguenza l’ampliamento delle fratture sociali e delle diseguaglianze, che già due anni di pandemia avevano incrementato, potrebbe determinare un impoverimento e una disgregazione sociale potenzialmente devastanti.
Trovare una via di uscita sembra un compito impossibile, ma è un impegno che dobbiamo assumere, ciascuno per la sua parte, cercando di mantenere alta l’attenzione della politica, della cultura, delle organizzazioni sociali sulla imprescindibile necessità di alimentare il dialogo sociale e la promozione dei valori di democrazia, partecipazione e giustizia sociale.
(*) Cese