Russia-Nato: la mossa del Donbass e gli specchi riflessi

Il discorso con cui Putin ha siglato il riconoscimento delle repubbliche secessioniste del Lugansk e Donetsk reca un messaggio denso di significati. Rileva la ricostruzione dei legami storici, religiosi e di sangue che collegano russi e ucraini: dal principato russo di Kiev alla fondazione leninista della Repubblica socialista di Ucraina, poi beneficiata con territori russi (Crimea) e polacchi, l’excursus rivendica, con la fratellanza, i crediti dell’antico status di potenza continentale della Russia. E lo fa tracciando i confini dello spazio vitale del panrussismo, rimodulato dalla nozione di “spazio spirituale”.

(Foto ANSA/Sir)

Il discorso con cui Putin ha siglato il riconoscimento delle repubbliche secessioniste del Lugansk e Donetsk reca un messaggio denso di significati. Rileva la ricostruzione dei legami storici, religiosi e di sangue che collegano russi e ucraini: dal principato russo di Kiev alla fondazione leninista della Repubblica socialista di Ucraina, poi beneficiata con territori russi (Crimea) e polacchi, l’excursus rivendica, con la fratellanza, i crediti dell’antico status di potenza continentale della Russia. E lo fa tracciando i confini dello spazio vitale del panrussismo, rimodulato dalla nozione di “spazio spirituale”.
Il cenno alle forze naziste in seno alla politica ucraina, poi, sottintendendo i meriti russi nella vittoria sulla Germania hitleriana, si congiunge alla definizione del governo di Kiev come “marionetta” nelle mani di predatori esteri impegnati a ridurlo al vassallaggio occidentale, in spregio al sentimento di larga parte della popolazione. Ciò vale a ribaltare l’accusa mossa a Mosca di comprimere l’autodeterminazione dei popoli circostanti. Rispedito al mittente anche lo stigma relativo all’attentare all’altrui sovranità, giacché sarebbero gli Usa, anziché le ingerenze russe, a manipolare gli indirizzi dello Stato ucraino. Se vogliamo, nel sottotesto delle responsabilità di Mosca verso le sofferenze dei popoli fratelli (come quelli del Donbass, appunto), fa capolino persino la responsibility to protect che, nei decenni scorsi, ha mosso l’interventismo umanitario occidentale in varie zone del mondo.
Con l’espansione Nato verso est, Putin ha denunciato la violazione del paradigma reciprocativo per cui pacta sunt servanda, alludendo alle garanzie siglate tra Usa e Urss e ribadite anche a Guerra fredda conclusa. Al centro della recriminazione, gli aiuti militari all’Ucraina, le esercitazioni sul suo suolo l’installazione dei missili Tomahawk in grado di colpire l’abitato di Mosca (leggasi Crisi di Cuba 1962 a posizioni invertite). Il tutto dissimulerebbe un’integrazione de facto nella Nato, che spinge la Russia a considerare l’Ucraina già ora una minaccia di prossimità al proprio spazio di sicurezza.
Dalla strategia comunicativa delle argomentazioni emerge un gioco di specchi riflessi, usato non solo per capovolgere le accuse, ma anche per rafforzarsi su un piano di legittimità paritaria che, dalle petizioni di principio, produce importanti implicazioni pratiche. Alla luce di esse, come leggere il decreto di riconoscimento? Una forzatura al rialzo? Un espediente per sparigliare le carte e superare lo stallo? O forse una mossa al ribasso, in vista di un guadagno minimo assicurato?
Putin ha messo una pietra tombale sugli Accordi di Minsk, che prevedono per l’Ucraina un assetto di fatto federale, inclusivo delle autonomie del Donbass. Invero, la soluzione è rimasta congelata per le riserve di Kiev sulla prospettiva di introdurre nell’architettura istituzionale, come cavalli di Troia, i luogotenenti del Cremlino. D’altra parte, l’instabilità delle regioni filorusse ha costituito un ostacolo all’accesso nella Nato, che esige dai membri un’esaustiva sovranità territoriale. Se oggi l’Ucraina accettasse la mutilazione, avrebbe una zavorra in meno alla sua Westpolitik. E la Russia, sapendo di non riuscire a frenarla in eterno, si sarebbe assegnata un risarcimento compensativo, edulcorato da Putin con l’immagine di una potenza a braccia spalancate verso quanti, anche nel futuro, vorranno riceverne sostegno e protezione: un alter ego regionale della Nato con il suo principio della “porta aperta”.
Diversamente, la mossa può essere letta come la sfida precostitutiva di uno scenario di potenziale equilibrio, rimettendo la palla tra i piedi dell’Occidente. Se Kiev volesse intraprendere azioni di ripristino sovrano in Donbass, si troverebbe ad attaccare la Russia, chiamandola a rispondere degli impegni assunti con le due repubbliche: allo stesso modo in cui la Nato sinora si è rappresentata nel dovere di reagire a difesa dell’amica Ucraina. Ma con una differenza. La “clausola di sicurezza collettiva” del Trattato nordatlantico ingiunge all’Alleanza di reagire militarmente in difesa di ogni membro. Quale l’Ucraina non è. Peraltro, Biden stesso ha ricordato che Kiev non soddisfa ancora gli standard di membership, stanti le carenze nello stato di diritto democratico e l’incerto controllo del governo civile sulle forze armate. Anche per questo le minacce contro le intemperanze di Mosca a stento prefigurano azioni militari dirette. E, cominciando da Germania e Turchia, non tutti sono disposti a patire per un Paese che dà poco in termini di sicurezza collettiva.
In parte ciò vale anche per le sanzioni. La riduzione delle esportazioni di gas e petrolio russe si ripercuoterebbe sul mercato globale, pesando sulla ripresa post-pandemica. Soprattutto, gli Stati europei non sono dipendenti allo stesso modo dalle risorse russe. Paesi come l’Italia pagherebbero lo scotto maggiore sul piano energetico. Certo è che la durezza delle reazioni verbali di Ue e governi nazionali è stata debitamente unanime, sicché non è peregrino immaginare che, se esse saranno conseguenti, alcuni Paesi riceveranno agevolazioni sussidiarie e forniture indennizzatorie.
Ovviamente, la radicalità delle misure, in assenza di precipitazioni manu militari (chi può escluderle?), risulterà dall’intersezione delle convenienze. Come pure dal bisogno della Casa Bianca di esaltare il suo ruolo di guida sulle scelte europee, archiviando il leading from behind di Obama, in risposta al gesto studiato di Putin nel preannunciare la firma del riconoscimento chiamando Berlino e Parigi.
La strada della diplomazia, nelle parole del Cremlino e di tutti gli altri attori, resta comunque prioritaria. Confidiamo nell’esattezza dei loro calcoli.

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