“Ci piacerebbe che Papa Francesco facesse un gesto inaspettato come la volta scorsa, facendo salire sul suo aereo qualche profugo di Lesbo. Ma non sappiamo se questo succederà. Però ogni visita del Papa è sempre simbolica. Speriamo possa dare impulso alle relocation (i trasferimenti) dei richiedenti asilo in altri Paesi europei. Non si possono trascorrere tre anni di sofferenza nel campo, l’isola deve essere solo di passaggio”. A parlare al Sir è Monica Attias, responsabile dei corridoi umanitari da Grecia e Afghanistan della Comunità di Sant’Egidio. Il 30 novembre ne sono arrivati 46 proprio tramite i corridoi umanitari da Lesbo. Il Papa si recherà nell’isola di Lesbo domenica 5 dicembre – nell’ambito della visita apostolica a Cipro e in Grecia dal 2 al 6 dicembre – per incontrare una cinquantina di richiedenti asilo, in maggioranza africani e afgani cattolici, accolti nel campo profughi di Mavrovouni (meglio conosciuto come Kara Tepe), nato dopo gli incendi e lo smantellamento del famigerato campo di Mòria, definito “l’inferno dei profughi”. Sarà un incontro breve, di circa un’ora, con le testimonianze dei migranti e la presenza dei rappresentanti della parrocchia di Mitilene (la cittadina vicina al campo), impegnati nelle attività di sostegno e solidarietà.
In questi ultimi anni l’isola di Lesbo è molto cambiata, perché la maggior parte dei migranti, arrivati con imbarcazioni di fortuna dalla Turchia, sono stati trasferiti dalle autorità greche – con i finanziamenti dell’Unione europea – in campi sulla terraferma. “Lesbo non è più una emergenza ma è ancora terra di primo approdo e annegamenti – spiega Attias -. Il problema è che i profughi rimangono qui mesi e anni in attesa delle pratiche burocratiche per la richiesta di asilo”.
Ora nel nuovo campo di Mavrovouni (o Kara Tepe) sono circa 1200 persone, ci sono container e tende con vista mare, ma questo anziché essere un vantaggio espone le persone al freddo e alle intemperie d’inverno. L’elettricità è razionata. A causa del passaggio delle consegne nella gestione del campo dall’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) al governo greco in questo periodo non viene distribuito il pocket money. Il cibo è poco e di scarso gradimento. La violenza all’interno del campo e le tensioni causate dai gruppi di estrema destra locali sono diminuite perché il campo è recintato e controllato dall’esercito greco. Però il sabato e la domenica non si può uscire. E ogni tanto ci sono corti circuiti che causano incendi oltre ai continui rischi per donne, bambini e persone vulnerabili. “Di notte le donne non vanno alle toilette pubbliche per paura di essere violentate. Sono costrette a fare la pipì nelle bottiglie. C’è promiscuità e precarietà”, racconta. Senza contare il fatto che “solo 40 bambini hanno la possibilità di andare a scuola regolarmente”.
Gli altri devono accontentarsi dei corsi di lingua greca o inglese forniti dai volontari delle Ong o dalla Summer school di Sant’Egidio ogni estate.
Un fatto grave è che “ci sono ancora tante persone in carrozzina che dormono in tenda in una zona del campo”.
Inoltre ci sono intere famiglie che vivono fuori dal campo, in case abbandonate o appartamenti presi in affitto da Ong o Chiese. In totale circa 500 persone sparse tra Mitilene e altri villaggi: “Si tratta principalmente di famiglie perché i singoli riescono a proseguire il viaggio da soli, passando attraverso la rotta balcanica”.
Il lavoro di volontari, Chiese e Ong. La Comunità di Sant’Egidio, come altre Ong, fornisce cibo, assistenza, supporto legale, aiuta i minori non accompagnati, prende in affitto appartamenti per le famiglie vulnerabili, in collaborazione con la Chiesa e la società civile locale. La scorsa estate hanno distribuito pasti sia per i migranti sia per i poveri di Mitilene, per superare competizioni e disparità. Lo stesso ha fatto Medici senza frontiere, fornendo cure gratuite a tutti. “C’è una rete locale che accoglie i profughi – spiega Attias -. Sono nate belle relazioni. Gli abitanti di Lesbo capito che non bisogna avere paura dei migranti e che la loro presenza fa circolare l’economia”.
Il rifiuto della Grecia (e dell’Europa). La preoccupazione maggiore, al momento, sono i richiedenti asilo che vivono in campi sovraffollati nella Grecia continentale, file di container e case in plastica collocati in zone isolate a una o due ore da Atene o dalle città. Quelli che si accampano nelle piazze di Atene vengono sgomberati dalle forze dell’ordine. “Purtroppo la Grecia ha dichiarato che chi viene da Afghanistan, Siria, Pakistan, Bangladesh e Somalia deve tornare in Turchia, considerato come Paese sicuro. Si tratta di rimpatri volontari, non forzati, ma la gente vuole arrivare in Europa.
Ma come si può dire che siriani e afgani non hanno diritto all’asilo?
Così dopo il rifiuto le persone rimangono nell’irregolarità in Grecia, non possono lavorare e vivono in un limbo senza futuro”. Attias ribadisce quindi che la priorità, in questo periodo, è “l’integrazione nella società greca oppure stabilire quote di persone da mettere in lista per le relocation, anche tramite corridoi umanitari e sponsorship”.